09 dicembre 2017

Marino, moderno e severo

 
A Palazzo Fabroni di Pistoia una mostra che rilegge la scultura del mitico Marino Marini. Scoprendo vibrazioni greche, medioevali ed etrusche, virate alla monumentalità

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È arcaica e moderna, l’anima di Marino Marini. Doppia come lo specchio in cui si riflettono le sue “passioni visive”. Da poco aperta a Pistoia, la retrospettiva “Marino Marini. Passioni visive. Confronti con i capolavori della scultura dagli Etruschi a Henry Moore”è densissima di opere provenienti da decine di musei e collezioni private.
Davvero eccezionale, non solo perché rispetto alle precedenti, è incentrata sull’intero orizzonte visivo dell’artista, ma anche perché, in termini cronologici affronta anni come i ‘30 e ‘40 mai trattai prima senza trascurare le opere della maturità.  A Palazzo Fabroni si scrive così un nuovo capitolo sull’arte di Marino, e un altro catalogo.
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Marino Marini, Cavallo 1947
Curata da Flavio Fergonzi e Barbara Cinelli la mostra mette tutte le questioni al punto giusto: soggetti come Cavalli e Pomone che finora avevano caratterizzato (e forse limitato) l’analisi stilistica  scultore adesso sono finalmente inquadrati contestualmente in rapporto a un prisma estetico più vasto e non fatto solo di terrecotte etrusche. Tutto ciò che ha brandito lo sguardo dello scultore, dalle vibrazioni greche e medievali fino alla scultura del ‘900, è stato esposto per la prima volta. Urne cinerarie dei lontani popoli locali sono messe in parallelo con le sculture del piacentino, pallidi riflessi o suggestioni più convincenti come i nudi maschili di Manzù e Rodin fanno da contraltare  a quelli più scheggiati di Marini. Molti sono i travasi formali, e anche richiamare le note sensuali dei nudi femminili di Maillol non è per nulla fuori luogo, anzi. Altri ricordi o reminiscenze vanno sussurrate con Donatello o Giovanni Pisano. E non resta escluso neppure Henry Moore in questa stanza di specchi. È  tutta la scultura più evocativa e tormentata che passa tra le mani di Marini. E resta impressa, non come banale citazionismo ma come traccia continua che riverbera. Che non fosse puro citazionismo lo diceva già nel ’36, Carlo Carrà, in occasione della partecipazione  dello scultore  alla Biennale: “La sua scultura è una verità che non ha bisogno di manifestarsi nell’imitazione visiva”. Come negarlo? Le sue opere sono talmente pregne di significato da segnare un punto di svolta per il futuro della scultura. In mostra ci sono opere tra le più incisive, scalfite, a volte frammentarie, rugose, con certe screpolature che solo materiali come la terracotta e il bronzo possono insegnare.
Forse è per questa scelta di “occultare” in modo originale il materiale impiegato che l’opera di Marino Marini ha incontrato subito il gusto dei collezionisti, soprattutto degli americani. Questa cosa sorprende tanto più se pensiamo alle sfortune iniziali di un altro Maestro, come Arturo Martini.
Tanti i capolavori esposti in mostra La Bagnante è del 1934. Raro prestito dalla Galleria Nazionale di Roma, ritrae una donna in una posa meditabonda, raccolta fra sé e sé, e con le mani sembra accarezzarsi i capelli o stringerli in una crocchia; è bellissima. Dello stesso anno, la Jeune Femme elegantemente distesa. Qui il volume si espande e prende spazio.
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Marino Marini, Ritratto di Fausto Melotti
Diversi sono i Cavalieri per niente “erranti”, ma solitari si stagliano dall’alto delle groppe equine. Sono colti in quello stupore senza tempo che ricordano non tanto le sculture equestri degli imperatori romani ma i guerrieri dell’arte arcaica in cui l’assenza di lineamenti fissa maggiormente l’ambiguità al di là del proprio tempo (in mostra un’opera dall’antica Beozia). 
Ma il linguaggio plastico di Marini cambia spesso. 
Quando  nel 1943 scolpisce Arcangela e Arcangelo lo scultore ha finalmente ceduto a un’espressione più umana, dolente, non tradita dalla scelta del materiale, il bronzo, che quando adoperato indurisce i contorni. Questi lavori segnano il passo e non fanno che confermare quanto Marini con un bagno di realtà abbia imparato dalla lezione dei toscani.
Nella linea della sua ricerca poi non devono sorprendere sculture come Tanagra o Susanna, le cui forme sgranate, i profili spezzati tendono verso forme più volumetriche.
I riflessi etruschi di opere come I Borghesi o Popolo sono piuttosto accentuati. Distinguerli dagli originali antichi a volte è meno semplice. Servirà riconoscere che in Marino Marini manca del tutto quel “sorriso arcaico” che connotava proprio l’arte e il benessere iniziale di quella antica civiltà preromana. 
Su una linea più classica è il confronto tra la Bagnante del Museo del Novecento e il purismo di Bartolini (in mostra c’è la Fiducia dal museo milanese Poldi Pezzoli). Un tema mai trattato prima in una mostra dedicata allo scultore pistoiese è anche come dell’arte figurativa greca, un’arte fatta di corpi nudi, siano rimaste a lungo una traccia nella storia della scultura. Marini non fa eccezione: l’uso arcaicista di trattare la materia “inaugura un nuovo codice plastico senza venir meno a quel senso di severità monumentale richiesta alla scultura”, come scrive Chiara Fabi in catalogo.
Anna de Fazio Siciliano

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