29 luglio 2017

La “Body” è donna?

 
Ecco la domanda che ricorre nelle sale della Galleria Nazionale di Roma, scoprendo che la ricerca sullo stato di salute del “corpo dell'arte” non è per nulla finita

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A distanza di un anno esatto dall’inizio di quel (molto discusso) processo di trasformazione, riallestimento e riorganizzazione della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, la direttrice Cristiana Collu continua idealmente il suo percorso rinovellante della istituzione romana con un filotto di mostre inaugurate lo scorso 22 giugno, in concomitanza con il solstizio d’estate: una monografica su George Drivas (che quest’anno rappresenta la Grecia alla Biennale), i leoni di Davide Rivalta (già presente con altri leoni in “Time is out of Joint”), e soprattutto “Body to Body. Corpo a corpo”.
Iniziamo col dire che “Body to Body” non è una mostra storica sulla body art, anche se potrebbe sembrarlo. È invece un percorso sulla preferenza da parte di artiste donne nell’utilizzare il corpo come mezzo intimo di espressione e denuncia della condizione femminile nella società contemporanea. Un mezzo molto più efficace di altri quando si tratta di esprimere lacerazioni, sofferenze e insofferenze, che affondano le radici in uno stato dell’esistenza profondo e primordiale.
L’arte del corpo usata dalle artiste degli anni Settanta, spesso come strumento di lotta ideologica e sociale, è ovviamente il punto di partenza, insieme alla traccia segnata dagli scritti di Lea Vergine – meritevole di aver messo a fuoco lucidamente, e per prima, il fenomeno della body nel 1974 con il suo seminale Il corpo come linguaggio – e di Carla Lonzi, critica femminista militante.
La sopravvivenza nella società attuale di alcuni grossi nodi legati alla questione femminile e rimasti irrisolti, ha portato la curatrice Paola Ugolini a interrogarsi su quanto quelle esperienze artistiche, critiche, militanti possano essere ancora valide e fruttuose oggi.
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Body to Body. Corpo a corpo, vista della mostra
La mostra si può idealmente dividere in due parti. 
Nella prima, che potremmo definire storica, vengono evocate le esperienze di alcuni mostri sacri del periodo d’oro della Body art, gli anni Settanta, la cui interpretazione collima spesso con la più fiera militanza femminista: si va ovviamente dalle azioni autolesioniste di Gina Pane (di cui è esposta anche la meno nota serie Action Il caso no.2 sul ring del 1976) all’alfabeto le cui lettere sono corpi femminili di Tomaso Binga (al secolo Bianca Menna), alle ansie da deflorazione in 14 stazioni di Renate Bertlmann, senza dimenticare le analogie tra opere d’arte classiche e particolari di vulve di Suzanne Santori, i giochi di mani di Ketty La Rocca, le trame relazionali imbastite da Sanja Ivekovi con il pubblico dell’inaugurazione alla Tommaseo di Trieste del 1977-78. 
Caso a parte le stranianti e liriche immagini di Francesca Woodman, così potenti e significative pur senza appoggiarsi a nessuna retorica femminista (eppure ancora si dibatte in certi ambienti critici, strano ma vero, se la Woodman fosse o no intenzionalmente in accordo con i precetti del femminismo militante).
Anche comprendendo l’impostazione ideologica della mostra, si avverte molto rumorosa l’omissione dell’altra metà del cielo (in questo caso, quella dei maschietti),  ignorando per esempio le imprese corporali di Günther Brus, di Urs Lüthi, di Vito Acconci, di Gilbert & George: gli unici artisti maschi presenti sono Ulay, e solo perché deuteragonista della Relation in space di Marina Abramović, e Claudio Abate, che documentò con i suoi scatti quell’aurea stagione romana in cui L’Attico di Sargentini ospitava artisti d’avanguardia internazionali: tra cui quelle coreografe e performer visionarie, giunte dritte dritte dalla scena fine anni Sessanta della postmodern dance di New York, che rispondono al nome di Trisha Brown, Yvonne Rainer, Simone Forti.
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Body to Body. Corpo a corpo, vista della mostra
“What is left?” è la domanda che si pone la seconda parte della mostra. Cosa è rimasto oggi di quelle esperienze? Esistono artiste capaci di prendere il testimone delle grandi body artists del passato, e declinare la body art in una sorta di versione 2.0? A quanto pare sì, e altrettanto accanite e combattive nel corpo a corpo.
Più interessanti sembrano le opere dal respiro più vasto, come gli esperimenti di travestimento di Alice Schivardi, dalle profonde implicazioni anche socio-antropologiche; oppure i lavori capaci di grande rabbia e potenza anche non incatenandosi esplicitamente a sovrastrutture ideologiche, e parliamo ad esempio di Elegia duinese n.1 di Silvia Giambrone, il calco di un morso montato su un’ametista. Più limitati e superficiali, invece, potrebbero apparire quegli episodi dal gusto retro-femminista. Chiara Fumai ci legge, trasformandolo anche in diagramma, il violento SCUM Manifesto di Valerie Solanas, più nota per aver sparato a Andy Warhol nel 1968 (Off topic: per avere un punto di vista parzialissimo sulla vicenda andatevi ad ascoltare la bellissima I believe di Lou Reed e John Cage da Songs for Drella). Goldschmied & Chiari ci propongono i loro dispositivi di rimozione, ovvero collage fotografici dove basta un nudo di donna a spostare l’attenzione del maschio da scene di attentati e stragi storiche. Valentina Miorandi scivola su una fin troppo facile analogia formale labbra-vulva. Claire Fontaine riflette sulla militanza della Lonzi, trasformando in mattoni i suoi più bellicosi testi chiave, dai titoli evocativi come Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale o La presenza dell’uomo nel femminismo.
Complessivamente “Body to Body. Corpo a corpo” ha il grandissimo pregio di suggerire tra le righe importanti riflessioni e interrogativi: se l’arte possa essere lo strumento più adatto per portare avanti battaglie sociali e politiche, ad esempio, e quali possano essere le modalità più idonee senza correre il rischio di andarsi a infilare in una gabbia ideologica; oppure in che modo attualizzare le vecchie ricerche body art femminili, in un mondo ormai caratterizzato da un’inarrestabile fluidificazione dei generi, senza snaturarle e senza correre il rischio di innescare un effetto nostalgia.

Mario Finazzi 

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