21 luglio 2019

Appartata e pioneristica

 
Una riflessione-omaggio sull'arte di Marisa Merz. E alla sua attenzione verso una manualità rivendicata come atto poetico

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Unica donna nel gruppo dell’Arte Povera, compagna di Mario Merz, madre di Beatrice, Presidente della fondazione Merz. Nel momento della sua scomparsa, avvenuta nella notte tra il 19 e il 20 luglio, è opportuno chiedersi: chi era Marisa Merz e qual è stato il suo posto nell’affollato firmamento dell’arte italiana degli ultimi sessant’anni, quasi esclusivamente maschile? Sue le frasi “Quando gli occhi sono chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti” (così aveva intitolato la sua mostra alla galleria L’Attico nel 1974) e “Quest’opera esisteva già prima di essere fatta perché l’umanità è antica” (Poesia senza titolo, 1978).
Due aspetti di Marisa: lo sguardo e il fare, l’attenzione maniacale ad una manualità rivendicata come atto poetico. E poi la maternità, il nome della figlia abbreviato in Bea, fonte di ispirazione per alcuni lavori intimi e familiari, che mantengono la dimensione fantastica di alcuni oggetti presenti nelle favole: scarpette, sassolini, giochi. La presenza della bambina viene vissuta come un atto quasi magico, così come il dialogo con la piccola Beatrice: “Lei era fantastica, ho imparato tanto da lei e li niente da me, perché il poco che sapeva era bello. Inventava, faceva” raccontava Marisa nel 1975. 
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Marisa Merz Senza titolo, 1984 Terra cruda, pittura, cera / Raw clay, paint, wax, 22 x 14 x 12 cm Collezione privata / Private collection, London
Da una parte Mario, dall’altra Beatrice: Marisa trova il suo spazio negli oggetti quotidiani, nell’aura intima delle piccole cose, in bilico tra poesia e magia, lontane da ogni monumentalità assertiva e ingrombrante. Lavora a maglia il filo di rame o di nailon, piega fogli di acciaio, modella la creta e il gesso per dare vita ad opere che sono apparizioni fantasmatiche, consunte icone bizantine, oggetti talmente fragili da sembrare indifesi, quasi fossero il risultato di quella che Tommaso Trini ha definito “economia di sopravvivenza” (sulla rivista  Data nel  1975). “Il segno è trascendenza, non solo volontà di potenza, sollevato nel gesto autoritario della mano”: Marisa disegna volti immateriali come ectoplasmi, li plasma nella materia, li impreziosisce con la foglia d’oro assecondando un’arcaicità che procede dalle statuette minoiche alle opere di Medardo Rosso e Costantin Brancusi. Costruisce fontane dallo zampillo basso, che scaturisce da un violino di cera bianca o dal centro di una vaschetta quadrata. Ama la pittura del Quattrocento italiano e fiammingo: “Parlami di Antonello da Messina, parlami di Gentile da Fabriano, parlami dell’Agnello Mistico, parlami che il cielo è grande spazio”.
“L’occhio guida la mano (l’occhio è l’angelo?)” diceva in quegli anni. All’inizio sceglie di esporre le opere in casa, sottolineando il desiderio di viverle nella silenziosa ritualità del quotidiano, come Living Sculptures, le sue prime sculture in fogli di alluminio piegato appese al soffitto dell’appartamento dei Merz a Torino nel 1966, insieme all’Altalena per Bea (1968). Giocattolo o opera d’arte? Probabilmente entrambi, come suggerisce Carolyn Christov-Bakargiev: “Sottolineando la continuità tra pubblico e privato, Marisa Merz ha trasformato la sua casa in un ambiente per la sua arte”. Non è un caso che non abbia esposto nulla in una galleria fino al 1970, quando trasferisce all’Attico opere come scarpette e coperte, che aveva in precedenza posizionato sulla spiaggia di Fregene. 
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Marisa Merz, Installation view, Serpentine Gallery, London, © 2013 Luke Hayes
Lavori concepiti e vissuti come punteggiature, che possono essere distrutti dalle onde del mare senza perdere la loro poetica semplicità, anticipatori di ricerche di molti artisti contemporanei: da Gabriel Orozco a Jason Dodge fino ad Haris Epaminonda, e in Italia da Pietro Roccasalva a Giovanni Kronenberg. In quell’epoca il lavoro di Marisa viene spesso ignorato: non è citata nel saggio di Germano Celant sull’Arte Povera del 1967, né viene inclusa nelle collettive del gruppo nel 1967 e 1968.
Ma Marisa continua a lavorare nella sua dimensione privata, con grande rigore e consapevolezza. Nel 1980 la galleria Tucci Russo ospita una delle sue installazioni più complesse, Senza Titolo: Marisa riempie il pavimento dello spazio con una serie di fogli di cartone con macchie di cera, sul quale sono collocati alcuni elementi scultorei di matrice minimalista. Poche e rare le mostre ed i riconoscimenti in Italia, che si intensificano negli ultimi vent’anni: nel 2007 una personale al Madre, curata da Eduardo Cicelyn e Denys Zacharopoulos, quattro anni dopo un’altra antologica alla fondazione Querini Stampalia di Venezia, curata da Chiara Bertola, seguita nel 2012 da un’altra antologica alla Fondazione Merz.
Nel 2013 La Biennale le conferisce il Leone d’Oro alla Carriera, mentre a tutt’oggi la mostra antologica più completa è “The Sky is a Great Space”, curata da Connie Butler al Metropolitan Museum di Nrew York insieme all’Hammer Museum di Los Angeles.
Un’occasione straordinaria per conoscere a fondo il pensiero di una grande artista, che ha scelto una dimensione appartata ma per molti versi pionieristica.

Ludovico Pratesi

L’ultimo saluto a Marisa Merz si terrà martedì 23 luglio, alle ore 11, alla Real Chiesa di San Lorenzo di Torino


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