21 giugno 2019

L’INTERVISTA/ALESSANDRO SCIARRONI

 
«Creare oggi è un privilegio».
Abbiamo intervistato il Leone d’Oro alla Biennale Danza 2019.

di

A Venezia apre oggi la Biennale Danza 2019, diretta da Marie Chouinard, che incorna Alessandro Sciarroni (1976, San Benedetto del Tronto) Leone d’Oro alla carriera. 
Ritenuto «fra i più rivoluzionari coreografi della scena europea», scrive la Biennale, «Performer, coreografo, regista, con alle spalle una formazione nell’ambito delle arti visive e diversi anni di pratica teatrale, Sciarroni è un coreografo italiano – recita la motivazione – che crea in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce dei concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie»». 
Che cosa hai provato quando ha saputo che, a soli 43 anni, ti sarebbe stato conferito il Leone d’Oro alla carriera?
«È stata una notizia che mi ha riempito di gioia, sono molto felice e grato. È un premio assolutamente inaspettato perché con questa decisione la direttrice artistica della Biennale Danza, Marie Chouinard, rompe in parte con la tradizione: negli anni il Leone d’Oro ha premiato carriere in un certo senso già storicizzate, mentre ora si è attivato un cambiamenti di rotta che si concretizza nella scelta molto chiara di premiare carriere che sono in corso, senza nessuna intenzione di paragonarle a quelle di William Forsythe o di Merce Cunningham. Questo cambio di direzione è nuovo per la danza, mentre se guardiamo, ad esempio, alla Biennale Teatro, il regista Thomas Ostermeier è stato premiato a 43 anni, esattamente la mia età, quindi ci sono dei precedenti storici».
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Folk-s, foto di Matteo Maffesanti
In tutta la tua ricerca c’è un’assoluta trasversalità da tutti i punti di vista…
«Sì, ma non è un elemento che cerco in modo forzato, mi viene un po’ da sorridere quando qualcuno afferma che io mixo linguaggi, come se fosse una mia dichiarazione di poetica. Per me si tratta semplicemente di trovare gli strumenti a cui attingere per poter esprimere ciò che voglio portare in scena. Pochi giorni fa, ad esempio, abbiamo debuttato a Matera 2019 Capitale della Cultura Europea, con “Petrolio”, un lavoro sulle punte con danzatori classici, dove in scena c’era solamente la danza e non abbiamo attinto a nessun altro formato perché in quel caso non ci sembrava importante farlo, avevamo già tutto il necessario per esprimere ciò che volevamo. In questi spettacoli di danza puri, tuttavia, il corpo spesso è spinto talmente all’estremo che non è possibile non pensare ad alcuni linguaggi, come la performance art o la body art, ma il mio intento non è a priori di mixare linguaggi».
C’è un elemento che accomuna tutti i tuoi lavori?
«Mi emoziona molto la questione dell’errore in scena, nel senso che nonostante i miei lavori siano studiati in ogni minimo aspetto e le prove siano quasi degli allenamenti fisici per riuscire a portare in scena il progetto, mi emoziona molto questo piccolo margine di imprevisto che può verificarsi ogni volta. Ad esempio quando abbiamo lavorato con i giocolieri in “Untitled”, la sfida era avere il coraggio di mostrare la fragilità di questa pratica che lotta contro la forza di gravità e non potrà mai vincere. Una dei primi inviti che ho fatto ai giocolieri con i quali stavo lavorando è stato di rallentare, di fermarsi nel momento in cui un errore si fosse verificato e un oggetto fosse caduto a terra. Per formazione i giocolieri sono abituati a nascondere l’errore o a farlo diventare qualcosa di divertente: la prima indicazione che ho dato, invece, è stato dare spazio a questo “errore”, di cercare di ritrovare la concentrazione, rallentare, guarda un attimo l’oggetto a terra e, invece di raccoglierlo frettolosamente, attendere di essere pronti e poi ricominciare da capo. Questa frattura è una degli aspetti più interessanti di questo lavoro e in un certo senso è qualcosa che cerco in tutti i miei lavori, perché quando li vedo da fuori, come spettatore – in fondo, io sono il primo spettatore dei miei lavori -, si crea una relazione empatica tra me e il  performer, anche se il performer esegue una pratica che è completamente distante da me, ma in cui mi riconosco. Questo è ciò che cerco di proporre e spero che accada, è ciò che si verifica quando una performance funziona, il che non sempre avviene, perché si svolge dal vivo e non si sa mai come andrà fino in fondo».
 
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Aurora © Matteo Maffesanti
Quando una performance funziona?
«La performance funziona quando l’energia che è in scena riesce a circolare anche al di fuori della scena stessa. È importante che il performer sia in grado di ascoltare l’energia del pubblico e di usarla per creare quasi un effetto di feedback. Per me si tratta sempre di una questione energetica che i performer cercano di stabilire tra di loro e tentano di propagare nella sala. Quando questo non è possibile, per me la performance non funziona. In questo senso – e non lo dico per prendere le distanze da quello che ho appena detto – il pubblico ha una responsabilità, è lui che può creare la magia: se il pubblico non è predisposto, se è respingente, se non è pronto, è diffidente, è molto difficile che la performance funzioni da questo punto di vista». 
Che differenza c’è per te tra lavorare su te stesso o coinvolgere altri performer nel portare in scena la tua idea?
«È stato un passaggio abbastanza naturale, perché quando facevo l’attore sono stato abituato, per quasi dieci anni, a essere diretto dai registi della compagnia, in particolare da Maria Federica Maestri, di Lenz Fondazione. Per tutto questo tempo sono sempre stato abituato ad avere un occhio esterno che mi guardava mentre mi muovevo in scena. Nel momento in cui ho iniziato a produrre i miei lavori, essendomi venuto a mancare quell’occhio esterno senza il quale quasi non riuscivo a muovermi in scena, è stato come se io avessi deciso, per una necessità personale, di diventare quell’occhio. 
Per arrivare al mio primo “Assolo”, nel quale sono tornato a performare, a danzare, ho dovuto aspettare il 2010, ed è stato un processo abbastanza lungo. Tra l’altro in quel lavoro ho trovato un piccolo escamotage, perché in scena uso la telecamera che proietta l’immagine su uno schermo molto grande e riesco così a guardare il mio movimento in tempo reale e questo mi permette di rimanere l’occhio esterno ed essere nello stesso tempo il performer». 
 
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Augusto © Andrea Pizzalis per Centrale Fies
Come avviene la selezione dei performer che lavorano con te? 
«In un casting, in genere, richiediamo delle caratteristiche tecniche molto specifiche e rilevanti che variano a seconda del progetto, dai danzatori contemporanei e classici con una grande abilità di andare sulle punte, ai giocolieri, agli atleti non vedenti e molti altri. I nostri casting di solito sono abbastanza lunghi, in genere facciamo una prima scrematura tramite video, a cui segue un incontro dal vivo e poi c’è una settimana di lavoro assieme, dove si crea già una piccola comunità. Talvolta le persone convocate sono più di quelle che poi lavoreranno al progetto, e alla fine c’è un’ultima selezione, sempre molto dolorosa.
Uno dei criteri che mi spinge a scegliere i performer è il potermi immaginare con loro nel lungo processo di realizzazione del lavoro: durante le residenze di creazione, che durano parecchie settimane, oltre a lavorare si vive assieme, si mangia assieme, si dividono le stanze, quindi sono molto interessato dall’empatia che riesco a cogliere in ciascuno». 
Sei stato definito come uno dei più rivoluzionari coreografi sulla scena contemporanea internazionale. Secondo te, nella danza, nella coreografia, nella performance, dove può esserci un elemento di vera novità? 
«Non voglio fare il finto modesto, ma la rivoluzione è già avvenuta, nel secolo scorso, con la ricerca dei grandi maestri, coloro che questo premio lo hanno ricevuto prima di me e che, già durante il secolo scorso, hanno intuito che fosse importante uscire dai confini della propria disciplina per essere in grado di raccontare la complessità della contemporaneità. La mia generazione e quella di artisti più giovani di me hanno semplicemente imparato la lezione e la stanno mettendo in atto. Non vedo, tuttavia, una rivoluzione in ciò che facciamo, vedo, invece, una libertà che ci è stata data da chi è arrivato prima di noi, che può sembrare rivoluzionaria. La rivoluzione che stiamo facendo, a volte, è quella di tradire gli insegnamenti di questi maestri, che grazie alle battaglie che hanno combattuto ci hanno consegnato una libertà in cui siamo anche liberi di tornare alla tradizione. 
Forse oggi la rivoluzione è rappresentata dal momento storico che stiamo vivendo, in cui ci sono delle forze che spingono verso un’idea di libertà, di acquisizione dei diritti civili, di cambiamento e nello stesso momento agiscono delle forze che vanno in direzione completamente opposta, con un grande ritorno alle idee xenofobe, razziste e conservatrici. Penso che creare, in questo complesso momento storico, sia un grande privilegio». 
Silvia Conta

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