27 maggio 2019

CINEMA

 
“A tu per tu con l’opera d’arte”, ovvero lo sguardo pluralista di Franco Simongini
di Carmelo Cipriani

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“L’opera d’arte – ha scritto Carlo Ludovico Ragghianti – è un percorso che deve essere letto in tutte la sue articolazioni e flessioni e momenti diversi e caratterizzanti”. Franco Simongini, regista, letterato e giornalista RAI, sembra aver preso alla lettera le parole del critico toscano, penetrando il processo della creazione non con la penna ma con la telecamera. Una presa diretta, che oggi, a distanza di decenni, ci consegna della documentazione importante, autorevole, risultato dell’attività e della dedizione di colui che a ragione è considerato il migliore documentarista italiano del Novecento. Il libro “Simongini Franco. L’atto poetico di documentare l’arte”, edito da Maretti Editore e recentemente presentato proprio alla Fondazione Ragghianti di Lucca, rende oggi omaggio alla poliedrica attitudine artistica di Simongini, ricordandone la caparbietà, la professionalità ma anche l’innata semplicità, di cui i documentari erano diretta trasposizione, colta da tutti, a cominciare da Federico Zeri, scelto come presentatore della serie “A tu per tu con l’opera d’arte”, che di lui ha scritto: “era un giornalista con ampie vedute. Era capace di ascoltare, accordando la massima libertà […]. Le sue domande, erano sempre molto semplici, in modo da poter essere capite da tutti”. Curato dai figli Gabriele e Raffaele, oggi anche loro affermati professionisti del mondo delle arti visive, il poderoso volume (272 pagine) raccoglie importante materiale biobibliografico su Simongini, a corredo del quale sono poste importanti, a tratti suggestive, testimonianze di letterati, registi, critici e storici dell’arte. Tra questi alcuni lo hanno conosciuto personalmente, altri, i più giovani, si sono formati sulla sua lezione, uniti ai primi nell’esaltazione del lascito intellettuale e nel rammarico per la precoce perdita. “Simongini – ha scritto Maurizio Calvesi – tenace nella sua solo apparente remissività, ha quasi miracolosamente prodotto una serie di documentari che resteranno, appunto, la testimonianza più eloquente sugli artisti degli ultimi decenni”. Privo di pregiudizi e di orientamenti precostituiti ha guardato all’arte del secondo Novecento con sguardo curioso e attento, consegnandoci fulgide testimonianze di un passato glorioso. Di lui e della sua instancabile attività abbiamo parlato con il figlio Gabriele, critico e storico dell’arte, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Roma
Ha definito quello di suo padre “uno sguardo pluralista”. Cinema, arti figurative, letteratura, molteplici erano i suoi interessi. Ma cosa li univa? Qual era il fil rouge della sua ricerca critica?
«Il fil rouge che univa la sua attività poetica, la sua passione per le arti visive e la documentaristica d’arte era la ferma convinzione che l’occhio del poeta e quello del regista coincidono, col fine di svelare gli aspetti inattesi e spesso straordinari di una realtà che si presenta priva di schemi preordinati o di pregiudizi. Tramite la poesia, Franco Simongini aveva allenato lo sguardo ad una osservazione affettuosa, malinconica ma ottimistica della realtà circostante: quello stesso modo di osservare avrebbe determinato il suo stile registico. Ma il suo pluralismo era anche quello aperto e curioso verso tutti i linguaggi artistici. Era insofferente nei confronti delle mode e delle gabbie ideologiche che spesso portavano ad escludere determinati artisti in base a ingiusti pregiudizi. Mi sembra una lezione attualissima».
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Franco Simongini ed Enzo Cucchi, Roma, 1988
Suo padre ha conosciuto e intervistato molti grandi artisti del Novecento italiano, da De Chirico a Burri, da Manzù a Vangi. Ma tra loro ce n’è uno con cui aveva un rapporto speciale, di vera complicità e amicizia? 
«Grande complicità ed amicizia c’erano con molti artisti, in particolare con Giorgio de Chirico e con Alberto Burri. Inscenando il gioco teatrale del giornalista petulante e dell’artista burbero, mio padre e de Chirico ci hanno donato due straordinari documentari proiettati nei musei di tutto il mondo: Il mistero dell’infinito (1974) e Sole sul cavalletto (1975). Con Burri c’era un rapporto di amicizia che andava al di là dell’arte, come si vede anche dalle belle cartoline che il grande artista inviava a mio padre da Las Vegas o da Hollywood. Erano uniti anche dalla passione per il cinema e a Roma andavano a vedere insieme soprattutto i film di Sergio Leone».
Scorrendo i nomi degli artisti intervistati sorprende l’assenza di artisti che pure avevano grande notorietà nel periodo di attività di Simongini, penso a Lucio Fontana, Emilio Vedova ed altri. Perché?
«Lucio Fontana muore nel 1968 ed in realtà mio padre dopo l’esperienza de “L’Approdo” cominciò a fare i suoi primi documentari in autonomia dai primissimi anni Settanta. La scelta degli artisti a cui dedicare un documentario era dovuta a varie circostanze e doveva prendere le mosse da un’empatia e da un’amicizia che avrebbero permesso di entrare nel loro intimo, come nessun altro regista italiano ha saputo fare. Mio padre doveva sentire scattare una scintilla poetica quando conosceva un artista, senza la quale non sarebbe stato possibile realizzare un documentario di “confessione”».
Tra gli artisti più giovani intervistati da suo padre si leggono i nomi di Giulio Paolini ed Enzo Cucchi, gli unici rispettivamente tra i poveristi e transavaguardisti. Perché proprio loro e non altri?
«Il documentario su Paolini nacque da una sua grande mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che favorì la realizzazione del filmato mentre mio padre rimase colpito dall’innata capacità “recitativa” di Enzo Cucchi oltre che dalla potenza visionaria delle sue opere degli anni ottanta».
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Franco Simongini con Giulio Turcato
Suo padre ha dedicato la vita a documentare la specificità dell’arte italiana. Ma rispetto alla coeva produzione internazionale, europea e americana in particolare, che posizione aveva?
«I filmati dedicati da mio padre ai protagonisti dell’arte italiana del ‘900 vanno visti come l’estremo approdo di una felice e plurisecolare vicenda creativa che affonda le radici in un passato concepito come parte integrante e viva del presente. Non a caso, anche se i suoi documentari più noti sono quelli dedicati ai maggiori artisti italiani del ‘900, una messa a fuoco dell’eccellenza artistica italiana, in senso ampio, lungo i secoli, è realizzata nel programma “A tu per tu con l’opera d’arte”, degli anni settanta, in cui Cesare Brandi ha scelto e commentato alcuni capolavori della nostra arte in un percorso plurisecolare, dal Guerriero di Capestrano ai templi di Paestum, dalla Cappella Palatina al Tondo Doni di Michelangelo, dalla Porta della Morte di Manzù ai sacchi di Burri. Mio padre era comunque interessato al contesto internazionale e va ricordato il suo bel documentario dedicato ad Henry Moore in occasione della sua mostra al Forte del Belvedere di Firenze nel 1972».
Era esperto e un grande appassionato di cinema. Ha mai pensato di girare un film?
«La sua conoscenza del cinema era ampia e profonda. Amava in particolare il nostro cinema neorealista e quello americano, da John Ford a Billy Wilder, solo per fare due nomi. Non ha mai pensato di girare un film ma nel 1968 ha scritto con Maurizio Costanzo un testo teatrale intitolato Quell’angelo azzurro che si chiama tv».
Quanto la dedizione alla televisione e all’arte di Franco Simongini ha inciso sulla sua vita privata?
«Arte e attività registica facevano costantemente parte della nostra vita familiare. Io e mio fratello Raffaele, che ha curato con me il libro su nostro padre, accompagnavamo molto spesso Franco negli studi degli artisti anche durante le riprese. È stata una “scuola” formidabile: da ragazzi parlavamo in tutta libertà con de Chirico, Marino Marini, Burri, Dorazio, Manzù, Guttuso, Schifano, ecc. e da tutti imparavamo qualcosa di unico sugli aspetti tecnici, poetici e spirituali che innervano le vere ricerche artistiche. Sono stati anni irripetibili». 
Carmelo Cipriani

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