10 gennaio 2019

Graffiti Never Die/ Parla Giorgio Bartocci

 
DALLA STRADA ALLO “STREET”
L’esperienza della pittura, dal muro alla galleria. E il “vestito” come opera d’arte

di

Giorgio Bartocci è un artista eclettico e volitivo che attraverso un uso sapiente del colore, della luce e del gesto annulla i confini tra “street” e “fine” art. La sua produzione spazia dai muri alle tele, dalle sculture alle costumizzazioni. Ecco la nostra chiacchierata. Buona lettura!
Qual è stata la tua formazione, il tuo percorso artistico? È vero che sei “figlio d’arte”?
«Ho sempre amato la pittura e sentito l’esigenza di trovare un’espressione priva di limitazioni e costrizioni; dai pittori del ‘900 ho imparato la ricerca della libertà interiore e collettiva, che sono gli aspetti che mi hanno avvicinato al mondo dell’arte contemporanea. Nel 1997 ho iniziato a dipingere come “graffiti writer” e parallelamente mi sono iscritto all’indirizzo “Arte dei metalli e dell’oreficeria” all’Istituto Statale d’Arte. Dopo il diploma mi sono trasferito all’Isia di Urbino per ampliare il mio background attraverso lo studio della grafica e della comunicazione visiva. E sì, sono figlio di artisti e per tale motivo ho avuto probabilmente un accesso privilegiato a questo mondo».
Nello sviluppo della tua ricerca c’è stato un passaggio dal figurativo all’astrattismo: puoi descriverci questa evoluzione? Che valore le attribuisci?
«Questa domanda mi tormenta da diversi anni; direi che è stato un passaggio fisiologico. In questa fase della mia carriera c’è stata una sorta di evoluzione del segno, mi sono liberato da molte delle catene formali della pittura, da quelli che ritengo essere elementi superati, produzioni effimere e poco concrete dal punto di vista dello sviluppo tecnico. Ora sento di poter dire che dipingo e ritraggo buona parte di ciò che rappresenta la nostra epoca attraverso un’astrazione visionaria; l’astrazione, infatti, è per me una richiesta di futuro, una volontà di lasciarsi alle spalle il presente».
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Giorgio Bartocci, Autodiffusione, ph Virna Lisi, Bologna 2018
La tua produzione si basa sullo studio della luce, del colore, del gesto: puoi parlarci dell’importanza che assegni a questi aspetti, come li sviluppi, come nascono e maturano i tuoi progetti?
«Luce, colore e gesto sono tre elementi fondamentali che servono a sottolineare le mie azioni, spesso – ahimè – limitate dalla dimensione degli arti e del corpo. Il gesto dentro le mie pitture è molto evidente, lo associo al movimento e al desiderio di volare. Il colore esprime l’esigenza di comunicazione emotiva con lo spettatore generando luminescenze e riflessioni energetiche, inquiete. Tento di far muovere il nervo ottico di chi si trova difronte a un mio pezzo per aumentarne il coinvolgimento».
Su quali supporti e con quali dimensioni preferisci esprimerti? Ovvero, oltre ai muri e ai lavori su grande scala, quali mezzi espressivi preferisci utilizzare?
«Non sono molto metodico e amo sperimentare su nuovi supporti con mezzi e media differenti. Prediligo le sfide su grandi pareti, indoor e outdoor; la tela, le carte e i metalli sono quasi uno standard da superare: provo disagio a confrontarmi con i piccoli formati. Oggi la mia ricerca è indirizzata verso una maggiore tridimensionalità grazie alla realizzazione di pareti in bassorilievo ottenute mediante l’applicazione di sculture lignee».
Street Art e Fine Art: due realtà che possono convivere e completarsi o due sistemi in opposizione e contrasto? Una è il preludio e l’altra l’evoluzione o sono sullo stesso piano?
«Domanda difficilissima. Probabilmente dal punto di vista artistico sono sullo stesso piano, ma guardando all’andamento del mercato, la Street Art è declassata rispetto alla Fine Art. In Italia, la maggior parte delle figure che operano nel sistema dell’arte non vuole sbilanciarsi e non investe in autori conosciuti per i pezzi “sporchi” di vitalità e vernice, ai limiti della legalità; si preferiscono ancora o autori del ‘900 o contemporanei più “semplici” da trattare e da adeguare al circuito delle vendite. Un’altra problematica del nuovo millennio è stata la perdita dei “movimenti”; le Avanguardie vengono offuscate dalla scena mondana e da quella fieristica che permeano questo mondo».
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Giorgio Bartocci, bodymuralism, 206 gallery, Bari, ph Giulio Spagone 2018
Street Art e Street Wear: due mondi che “vanno a braccetto” e che stanno acquisendo sempre maggior spazio sul mercato. Ci racconteresti qualcosa delle tue “customizzazioni”?
«Lo streetwear è da anni la quinta disciplina della “Hip-Hop culture”, realtà da cui sono nati i movimenti del writing e della street art. Oggi lo streetwear è apprezzato da molti ed è stato sottratto alla strada dal mondo della moda, come dimostrazione di cambiamento. È stata un’esplosione al pari della trap music probabilmente per la maggiore spensieratezza, il confort, la qualità, lo stile e il senso di novità che lo contraddistinguono. Grazie a contaminazioni importanti con il mondo della moda e della street art, questa tendenza sembra essere diventata virale e, confermo, di estrema diffusione sui mercati globali. Io ho avuto la possibilità di sperimentare, produrre e stampare su tessuti pregiati. Ho sempre pensato alla streetwear come a un oggetto d’arte in movimento e vedere alcune mie produzioni indossate in giro, in strada, mi ha emozionato».
E invece, il “Bodymuralism”? Di cosa si tratta?
«”Bodymuralism” è il termine che ho coniato in occasione della prima collaborazione per il brand di Milano Southfresh. Il progetto prevedeva la realizzazione di una capsule collection dal titolo “mimesis #gbcamos1”, una sorta di elaborazione del concetto di mimetica in chiave urban-streetwear d’élite. Negli anni successivi, sotto la direzione degli editori indipendenti della Gram publishing, ho prodotto alcuni capi in edizione unica per il progetto “lowridaz” enfatizzando il tema dell’opera d’arte in transito, sfruttando lo spazio dei vagoni della metropolitana come studio d’arte e idealizzando il corpo umano, e colui che indossa un abito, come una scultura o un quadro in movimento per le strade delle nostre città. Il progetto è stato divulgato in anteprima dalla 206 galleria di Bari con il contributo dell’esperto modenese di post graffitismo Pietro Rivasi».
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Giorgio Bartocci, bodymuralism – Ph. by Pixel T – Tommaso Cazzaro
Parlando dei progetti più recenti, cosa ci puoi raccontare del lavoro per la MCFIT (Bologna) e per la Cattedrale Immaginata (Modena)? 
«Sono due progetti che mi hanno trasmesso un forte entusiasmo. A Modena – all’interno di un hangar trasformato in una nuova Cattedrale – ho realizzato per l’associazione culturale Rosso Tiepido, in collaborazione con la Magma Gallery (BO), un murale dal titolo San Giorgio in sogno; dopo di me altri 9 autori della street scene italiana hanno contribuito a rendere questo posto una sorta di neo-luogo sacro del muralismo contemporaneo Italiano. A Bologna, invece, ho avuto il piacere di collaborare con un brand tedesco molto innovativo, che da anni investe (per i numerosi corners sparsi in tutta Europa) nel linguaggio della street art. La direzione creativa della società, per l’apertura della 30esima sede italiana, mi ha commissionato il restauro di una palazzina bianca con un rivestimento artistico-ambientale che ho intitolato Autodiffusione. Dopo lunghe ricerche sul territorio, ho deciso di trasformare la parete in un volume tridimensionale tra giochi di spessori e multilivelli astratti che si sovrappongono alla dimensione della luce».
Infine, due parole sulla mostra lampo al MIMUMO di Monza? 
«Si tratta di un’installazione urbana curata da Roberto Ratti (Traffic Gallery). Per l’occasione, ho realizzato una sorta di scultura in miniatura: l’opera intitolata Donna Forma 01 vuole testimoniare – attraverso l’astrazione – la straordinaria potenza della vita, iconograficamente dipinta come figura femminile».
Maria Chiara Wang

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