18 gennaio 2019

IPERTEATRO 2019

 
Quel qualcosa che pertiene solo e soltanto al linguaggio del teatro: intervista a Francesco Alberici
di Giulia Alonzo

di

Entrato nel mondo del teatro un po’ per caso, Francesco Alberici, trentenne milanese, si è già imposto sulla scena nazionale con diversi successi: prima con il gruppo emergente Frigoproduzioni e ora gira l’Europa affiancando la nota compagnia Deflorian / Tagliarini come attore e aiuto regista. La prima puntata di Iperteatro2019 è dedicata a lui che continua a guardare il teatro senza aspettarsi nulla.
Chi te l’ha fatto fare di fare teatro? Mi racconti un po’ di te e di cosa ti ha spinto a questa professione?
«Qualcuno mi aveva consigliato di iscrivermi a un corso di teatro, per sconfiggere una certa timidezza durante gli anni del liceo. In verità già prima c’era qualche segnale: a scuola adoravo architettare scherzi di varia natura e complessità, che coinvolgessero il maggior numero di persone possibili, da più piccolo assieme a mio fratello ci inventavamo storie i cui protagonisti erano i pupazzetti degli Ovetti Kinder e le mettevamo in scena sul parquet di camera nostra. Magari sono cose che facevano tutti; io ora, guardandomi indietro, ci leggo dei sintomi».
Cosa ti aspettavi quando hai iniziato?
«Nulla. Il cinema mi appassionava sin da ragazzino, mentre l’incontro col teatro è stato del tutto imprevisto: non ne sapevo nulla. Mi sono sempre mosso con curiosità nell’esplorare un territorio sconosciuto, senza particolari aspettative. L’incontro, come spettatore, con alcuni spettacoli è stato decisivo. In occasione di questi lavori, mi sono trovato immerso in qualcosa che né il cinema né la letteratura sarebbero stati in grado di replicare, di fronte a qualcosa che non poteva accadere che lì e in quel momento, e che in qualche modo mi sconvolgeva. Sia come spettatore sia come realizzatore, cerco proprio questo: lo specifico del linguaggio teatrale; ovvero quel qualcosa che pertiene solo e soltanto al linguaggio del teatro».
Cosa vuol dire essere un regista under 30, in Italia oggi?
«Significa avere anagraficamente meno di trent’anni e lavorare come regista. Significa vacillare tra la giusta sensazione di aver ancora molto da imparare e la legittima pretesa di avere spazio, ascolto e denaro per sperimentarsi. Significa avere un desiderio espressivo vorticoso, e allo stesso tempo non saper ancora maneggiare con piena cognizione i propri strumenti. Significa dover inevitabilmente incontrare dei fallimenti futuri (e avere pieno diritto a incontrali, senza doverne essere necessariamente travolti). Significa desiderare di avere dei maestri e allo stesso tempo desiderare metterli in discussione e smarcarsi da loro. Infine, in Italia (ma forse non solo), significa non sentirsi parte di una comunità e avere una fortissima percezione della totale inutilità e irrilevanza del proprio ruolo nella società».
Tu hai una compagnia, Frigoproduzioni, come è nata e perché?
«Frigoproduzioni è nata quattro-cinque anni fa, quando io e Claudia Marsicano abbiamo deciso di inventarci assieme uno spettacolo; uso il verbo inventarci, perché per la prima volta non eravamo soltanto attori, ma anche registi, drammaturghi, costumisti, scenografi e organizzatori. Dopo qualche mese si è unito a noi Daniele Turconi. Sul perché della nascita credo che ognuno abbia le proprie motivazioni. Personalmente ero in un momento in cui mi stavo rassegnando all’idea che le cose sarebbero andate in un’altra direzione, non certo quella del teatro, per una sorta di misterioso disegno superiore. Mi ero appena laureato in economia politica e iniziavo a fare i primi colloqui con alcune aziende. Alla fine di un colloquio mi hanno proposto di cominciare a lavorare il lunedì successivo: ho tergiversato per qualche minuto e poi ho detto che proprio non potevo. Uscito dal colloquio mi sono dato cento volte del coglione e poi mi sono detto che avevo massimo un anno per dimostrare a me stesso di poter fare del teatro un lavoro».
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Francesco Alberici, foto Elizabeth Carecchio
Ognuno di voi collabora anche con altre compagnie, ricoprendo diversi ruoli. Quanto ognuno di voi porta nella compagnia le proprie evoluzioni maturate in altri percorsi e come le riuscite a conciliare tra voi?
«Lavoriamo in altre compagnie, che fanno percorsi estremamente diversi tra loro: se la collaborazione di Claudia con Silvia Gribaudi è orientata sulla danza e sulla performance, la mia con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è più nella zona della nuova drammaturgia (chiedo scusa per le categorizzazioni un po’ misere, servono solo a dare un’idea). Non è facile fare una sintesi di tutte le esperienze esterne e riportarle all’interno del lavoro di gruppo e forse non è nemmeno possibile farlo.Piuttosto penso che ognuno di noi abbia già su di sé i segni di tutte le esperienze attraversate, e come conseguenza inevitabile la mia dimensione performativa sia distante da quella di Daniele e Claudia, ma questo è soprattutto un vantaggio per la nostra possibilità di stare in scena assieme. Dobbiamo accordarci, come strumenti di natura diversa che vogliano suonare assieme, ma l’eterogeneità degli strumenti rende più complesso il suono».
I vostri primi due lavori hanno affrontato il contemporaneo con uno sprezzante uso dell’ironia. Perché? Da cosa partite per la scelta del tema dello spettacolo? Mi racconti un po’ il metodo di lavoro?
«Penso si possa parlare più di un’autoironia disperata che di una sprezzante ironia. Ci tengo a sottolineare questa distinzione, perché nei nostri lavori l’ironia è sempre legata a uno sguardo su noi stessi, e più che sprezzante è disperante. Mi pare che l’ironia, già di per sé sfuggente a qualsiasi definizione troppo precisa, sia diventata nel linguaggio comune una sorta di parola-ameba, svuotata di un centro, che ricopre uno spettro fin troppo ampio di significati e che ognuno usa a proprio piacimento. Credo che il centro della questione sia: l’ironia è uno strumento progressista o conservatore? Implica uno sguardo rinunciatario e annichilito rispetto a una qualsiasi possibilità di cambiamento della realtà, e quindi conservatore, o è uno strumento ancora dotato di un potenziale critico e di un desiderio profondo di ribaltamento del reale? Non ho risposte, per me è una questione aperta. C’è un terreno comune di tematiche nei nostri lavori, pur diversi tra loro. L’imperativo dell’affermazione di sé, l’isolamento rispetto a una dimensione comunitaria e la difficoltà a uscire da questo isolamento, la frustrazione che deriva dal non sentirsi mai all’altezza, affiancata da una prepotente ambizione e da un frammentario senso di onnipotenza. Sono questioni che ci riguardano intimamente, le viviamo, allo stesso tempo penso siano connaturate alla nostra epoca, quindi sentite da molti. Tuttavia è solo nei nostri personalissimi confronti che ci permettiamo di essere feroci. Claudia in Tropicana parlando di sé, tramite il filtro della cantante del Gruppo Italiano, affonda in una spietatezza che rasenta la disperazione più che l’ironia distaccata».
Siete già al lavoro su un nuovo spettacolo? Su cosa ti piacerebbe lavorare?
«A Tropicana, nostro ultimo progetto, abbiamo dedicato due anni di lavoro, al momento ci piacerebbe portarlo un po’ in giro, visto che non abbiamo fatto molte date. Considerato poi quanto poco pubblico va a teatro, è un po’ paradossale l’ansia produttiva che travolge il sistema teatrale. Poi penso che fare uno spettacolo significhi avere l’esigenza di dire qualcosa e non si ha qualcosa da dire a intervalli regolari».
Parallelamente stai collaborando con una compagnia internazionale come Deflorian / Tagliarini. Cosa vuol dire lavorare con loro? Con loro viaggi molto, anche fuori dall’Italia, hai pensato di “espatriare”?
«Non posso riportare in poche parole cosa significa e ha significato la collaborazione con Daria e Antonio. Posso soltanto essere banale e melenso, e lo sarò. Prima di tutto ha significato la nascita di un’amicizia e di un amore reciproco fortissimi. Poi la possibilità di avere dei maestri umili, che hanno sempre avuto la generosità e l’intelligenza di uno sguardo paritario, mai dall’alto verso il basso, che mi hanno permesso di entrare nel loro processo creativo e di farne parte, che non hanno mai preteso di insegnarmi qualcosa e, proprio per questo, mi hanno insegnato, ma preferirei usare il verbo regalato, più di quanto potessi aspettarmi. Mi piace molto l’attenzione che la Francia rivolge al teatro, con un’intelligenza e delle economie che in Italia latitano. Per esempio l’editoria teatrale è estremamente ricca, l’osservazione del lavoro degli artisti è più analitica che basata su fattori di gusto. Però in Italia Cue Press, secondo me, sta facendo un bellissimo lavoro».
Cos’hai in programma per i prossimi mesi?
«Ho appena finito di collaborare proprio con Deflorian / Tagliarini in due progetti che ragionano attorno al mondo artistico di Michelangelo Antonioni. Per Quasi niente ho collaborato alla drammaturgia e alla regia del lavoro; mentre in Scavi sono anche in scena, assieme a Daria e Antonio. Scavi ha debuttato a luglio al festival di Santarcangelo. Quasi niente al Lac di Lugano a ottobre. Ora inizio a ragionare sul futuro, ho voglia di rimettermi a studiare».
Cosa ti aspetti dal teatro, adesso?
«Continuo a non aspettarmi nulla. La mancanza di aspettative è il miglior atteggiamento per continuare a essere sorpresi».
Giulia Alonzo
Prossime date di Tropicana
12 gennaio – Cantù
18 gennaio – Cascina
23 febbraio – Bagnone
2 marzo – Albenga
15-17 maggio – Roma
18 maggio – Foligno
Prossima puntata di Iperteatro 2019: Marta Cuscunà

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