02 agosto 2018

CRIPTA, TEMPIO E ANTICAMERA

 
Francesco Stocchi ci racconta la mostra di Kerstin Brätsch alla Fondazione Memmo: un’evocazione archeologica pensando a Roma e a una serie di imprevedibili reazioni

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Quando si legge la biografia di Kerstin Brätsch, nonché il foglio di sala che accompagna l’esposizione nella Fondazione Memmo, non si può non avvertire un’abbondanza di elementi e caratteri di complessità e poliedricità. Connessi non solo alle installazioni e alle opere allestite, ma anche, più in generale, alla sua pratica artistica, ai progetti, fino alle varie collaborazioni che Kerstin Brätsch ha attivato. Progetti che spaziano dalla montatura per occhiali da sole per Max Mara realizzata insieme a United Brothers (2018), al Progetto Ringier AG per la rivista vietnamita Thoi Trang Tre con Adele Roeder (2011). Diverse collaborazioni di cui KAYA (sorta nel 2010 con Debo Eilers) ne è una testimonianza. Inoltre, l’artista, nata ad Amburgo nel 1979 e che dal 2005 vive a New York, vanta mostre in importanti musei e partecipazioni a rilevanti rassegne, come la Biennale di Venezia (2011) e la Biennale del Whitney Museum di New York (2017). 
Invitata a Roma dal curatore Francesco Stocchi, Kerstin Brätsch ha dato corpo alla mostra il cui titolo sottolinea subito la sua indiscussa dinamicità artistica. Approfittando della storia, nonché della struttura architettonica degli spazi della Fondazione, ha ideato un’esposizione divisa in due sezioni, una approntata negli ambienti del corpo principale, comunemente individuati come Casa; l’altra allestita dove c’era la Stalla. Così, nella Casa, ha realizzato la personale “Ruine”; mentre nella Stalla ha presentato il lavoro con KAYA, titolato KOVO
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Kerstin Brätsch_Ruine, installation view at Fondazione Memmo, Rome, 2018, © Daniele Molajoli

La pellicola arancio con la quale ha ricoperto le ampie vetrate della Casa consegna, agli interni, quell’atmosfera caratterizzante le antiche basiliche con le invetriate istoriate. Lavorando con artigiani locali, ha altresì rispolverato la prassi medievale del “cantiere”, sottolineando ulteriormente la volontà di annullare la soggettività dell’artista. Attraverso il titolo Ruine e la ri-suddivisione degli spazi, l’artista ha poi innescato quell’indiscussa evocazione archeologica e architettonica che universalmente contraddistinguono la Capitale. Brätsch, infatti, ha costruito un percorso distinto in Anticamera, Cripta e Forum, lungo il quale ha disseminato i suoi lavori, alcuni meno evidenti, accompagnati da elementi ora decorativi ora strutturali, che si configurano a volte come d’aprés, altre come vere e proprie citazioni. Vedi il Blu col quale, insieme all’artigiano Walter Cipriani, ha ricoperto le pareti dello spazio della Cripta come le volte dell’Anticamera e del Foro, significativamente titolato Ave Giotto; lo stesso discorso vale per la messa in opera di travi che riproducono delle venature marmoree e cadenzano lo spazio dell’Anticamera e unificano quella del Foro, realizzate sempre con Cipriani. L’opulenza marmorea dell’Urbe è in qualche modo richiamata dalle lastre di pietra artificiale che imitano il marmo della serie Psychic Fossil, anticipata nell’Anticamera e completata nel Foro, che si presenta, pur mantenendo una base pittorica, piuttosto come processo scultoreo. 
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Kerstin Brätsch_Ruine, installation view at Fondazione Memmo, Rome, 2018, © Daniele Molajoli

Unstable Talismanic Rendering sono gli inediti marbling paintings realizzati insieme al maestro tedesco di marmorizzazione Dirk Lange, risultanti da un laborioso processo di realizzazione, che fa propri anche i fattori di casualità e incognita. Con una tecnica che porta ad ulteriori conseguenze, il noto dripping, inchiostri e solventi sono fatti gocciolare su una superficie liquida stesa su di un foglio di carta che, una volta essiccati, danno corpo a delle pitture astratte fortemente materiche per il processo di marmorizzazione. La pratica di far incontrare sostanze diverse osservandone poi le imprevedibili reazioni, nelle evidenti differenze, ricorda da vicino quella messa in atto da Beatrice Pediconi, nei suoi video e nelle sue immagini. È, infine, nel Foro, che velatamente compare l’artista attraverso la materializzazione di forme simili a salsicce, che ironicamente giocano sul suo nome il quale si ricollega alla Brätschwurst, la salsiccia tedesca con pane. Tecniche e pratiche diverse che evidenziano non solo un corpo a corpo con la pittura e la volontà di portarla alle estreme conseguenze, ma anche una forte sperimentazione che sembra tendere alla teutonica aspirazione della Gesamtkunstwerk. 
Un corpo a corpo ancora più evidente nelle lampade e pelli realizzate da KAYA nella Stalla che, agendo sul titolo KOVO, termine che indica anche un ibrido uomo-mucca (man-cow), e quindi sulla sua contrazione, ha prodotto un lavoro dove sono fusi pittura, scultura, per metà umani e per metà animali, creando così un’atmosfera pressoché primordiale finanche allucinante.
Ma è il curatore Francesco Stocchi a illustrare gli aspetti più profondi dell’artista e della mostra.
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Kerstin Brätsch_Ruine, installation view at Fondazione Memmo, Rome, 2018, © Daniele Molajoli

Della mostra attualmente in corso nella Fondazione Memmo, è sempre sottolineata la pratica di Kerstin Brätsch di collaborare con degli artigiani; in quest’occasione, gli artigiani con cui ha collaborato erano già di sua conoscenza oppure sono stati coinvolti in seguito alla sua residenza a Roma?
«Ovviamente è necessario distinguere la collaborazione artistica tra quella con gli artisti e quella con gli artigiani. Quella con Walter Cipriani è nata da un nostro stimolo, è un’idea che ho avuto di farli incontrare per una loro collaborazione».
L’incontro è dovuto al fatto che tu, conoscendo il modo di operare di Kerstin Brätsch, hai pensato che quest’artigiano potesse collegarsi col suo processo artistico ed essere sulla stessa linea?
«Esattamente. Infatti, in questo periodo l’artista è di nuovo a Roma, per continuare a collaborare e lavorare con questo medesimo artigiano per progetti futuri, al di là della Fondazione Memmo. Perciò è un incontro e un rapporto che hanno avuto successo».
Aver scelto Kerstin Brätsch è collegato a un tuo progetto più ampio? Com’è caduta la scelta su di lei?
«Kerstin Brätsch è un’artista che apprezzo da molti anni, soprattutto perché è un’artista che si interroga, in un modo più puntuale e radicale rispetto a come lo facciano altri, sulle varie declinazioni e trasformazioni della pittura. Tutti si interrogano sul futuro della pittura e lei lo fa, secondo me, in un modo totalizzante, rimettendo in crisi anche le basi stesse di quello che vuol dire fare pittura, essere pittore, e questo in generale. Mentre, nello specifico, i progetti della Fondazione Memmo, sono progetti di lunga durata, perché non si invita un artista con un corpus di opere da esporre, o con delle opere sopra un’idea o un tema, ma si invita l’artista ad abbracciare la città, con i suoi umori e le sue caratteristiche, e lo si stimola, attraverso questo lavoro con gli artigiani, a portare avanti un corpus di opere nuove. Quindi, è una sorta di salto nel buio, che si fa insieme. Non basta, perciò, apprezzare un artista in quanto tale, ma bisogna anche entrare in altri due aspetti: uno è quello del carattere, che deve addire anche alla sperimentazione, che prova ad uscire da quella che si chiama la “zona di conforto”, dal personale studio; l’altro, che l’artista deve trovarsi in un periodo della propria carriera pronto “a cambiare pagina”. Kerstin Brätsch aveva avuto una grande mostra al Museum Brandhorst di Monaco (2017), una sorta di retrospettiva, che ha ripercorso tutti i suoi primi quindici anni di lavori. Era, quindi, buon momento per “voltare” pagina e guardare a qualcos’altro, e ancor di più lo è stato poterla voltare insieme. La scelta è una serie di circostanze, che va oltre all’apprezzamento delle opere in sé, quali quelle “temporali” e “umanistiche”».

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Kerstin Brätsch_Ruine, installation view at Fondazione Memmo, Rome, 2018, © Daniele Molajoli

Secondo te, quanto ha influenzato la residenza a Roma sulla visione e sulle opere di Kerstin Brätsch? La città e la sua storia sono state una “scoperta” e un voler metabolizzare la nostra cultura (come ad esempio il blu di Giotto)? Hai registrato uno scarto, una differenza, rispetto a quanto da lei realizzato finora?
«C’è sempre un’evoluzione e uno stravolgimento in ogni artista, e lo si augura sempre e comunque. Ma, in questo caso, più di residenza, secondo i canoni con cui la conosciamo, parlerei più di “visite di vita” estese nel tempo, fatte di molti viaggi, a volte di pochi giorni, altre di qualche settimana; è quindi una sorta di andirivieni e Roma diventa una sorta di destinazione per un periodo, più che una residenza statica. E Kerstin Brätsch più che cogliere gli aspetti di Roma e assorbirli, ha lavorato intorno a certe proprietà, o caratteristiche, che sono ad esempio quella degli strati delle diverse epoche, della stratificazione della città, dalle catacombe fino ad oggi. Quindi quest’idea che si può anche vedere come metaforico, di strati di materia e di colore uno sull’altro, di sedimentazione, ed è riuscita a proporre un’immagine di Roma che per una volta non è romantica, abbattendo anche tutti gli stereotipi legati alla grandezza e alla storicità, della monumentalità, che la Roma antica presenta agli occhi degli stranieri. E da romano, posso dire che ha proposto una cartolina della città assolutamente non stereotipata e non romantica, e questa è stata la sorpresa maggiore».
L’idea di ridisegnare lo spazio, costruendo delle stanze, è risultante dalla conformazione architettonica della Fondazione oppure l’idea di avere più ambienti per poter sviluppare più momenti? L’avete elaborata insieme oppure è stato un procedere del progetto o, invece, un’idea del tutto personale dell’artista?
«La Fondazione mette a disposizione gli spazi. L’artista e io abbiamo lavorato insieme, pensando a tre ambienti, che, ovviamente, riprendono alcune delle tematiche del progetto nella sua totalità, vale a dire: la cripta, il tempio e la sua anticamera. Riprende un po’ le caratteristiche classiche delle strutture romane, quindi è stato un modo di suddivisione per creare tre tempi, tre ambienti ben distinti l’uno dall’altro, come per dare un tempo, di dinamica e di successione l’uno dall’altro».
Daniela Trincia

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