21 luglio 2018

A spasso con il cervello

 
Jan Fabre alla Fondation Maeght tra scienza e arte, sacro e profano. Lasciandoci con un enigma: sentiamo con la testa e pensiamo con il cuore?

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Jan Fabre ci accoglie al cancello della Fondation Maeght di Saint Paul de Vence con il cervello ben esposto al di sopra della sua calotta cranica. Si tratta ovviamente di uno dei numerosi autoritratti in bronzo luccicante che l’artista fiammingo ha prodotto per presentare direttamente il soggetto delle sue creazioni. L’esposizione “Ma Nation: l’imagination”, ospitata dalla fondazione francese fino al 30 novembre, comincia con questa scultura inedita che ci rivela fin dall’ingresso chi sarà il protagonista indiscusso della mostra: il cervello. Quest’organo complesso composto da circa 1,5 kg di materia misteriosa e immerso in un liquido simile ad acqua è la sede non solo dei nostri pensieri, di per sé nulla di strano, ma anche delle nostre emozioni. Grazie ai progressi delle neuroscienze, sappiamo che nel cervello nascono l’imitazione, l’intelligenza, l’empatia e la compassione. Il viaggio più interessante e avventuroso che possiamo intraprendere oggi è all’interno di questa “terra incognita” che proprio perché non sembrava coinvolta nel nostro sentire è rimasta a lungo esclusa dalle rappresentazioni estetiche. 
Per compierlo Fabre sceglie lo strumento che gli è più proprio: l’immaginazione. Dal centinaio di cervelli, riuniti per la prima volta in una mostra sotto forma di sculture, disegni o collage, sgorgano altrettanti simboli, sacri o profani, aulici o popolari, che danno forma a questa “forza magica” che permette di cogliere la relazione segreta tra le cose. Adepto della concilience – ovvero del confronto tra il sapere scientifico e quello umanistico – l’artista tiene unite non solo diverse discipline, ma anche antico e moderno, passato e futuro, sacro e profano e, ovviamente, la scienza e l’arte. 
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To wear One’s Brain On One’s Head (by a small artist), 2018. bronze © Angelos bvba / Jan Fabre / © Adagp Paris 2018. Photo crédits – Jan Fabre – Fondation Maeght  

Il Cervello di Giano, alle soglie della prima sala d’esposizione, ci ricorda proprio questo metodo: «Janus, il dio a due facce, onnipresente e enigmatico, guarda allo stesso tempo in avanti e indietro, verso il passato e verso il futuro, tanto ai mondi 
interiori che esteriori»: è una frase che si trova in tutti i numeri di Janus, la rivista fondata dallo stesso Fabre. Appena entrati un uomo scorticato conficca una pala nella materia grigia. È proprio lì che si dovrà scavare perché «conoscere le funzioni cerebrali equivale a capire più a fondo il nostro essere corporei». I primi cervelli in silicone dipinto sono sufficientemente realistici da farci pensare che l’artista, indossando un camice da anatomista, voglia rappresentarne la morfologia con tanto di parti molli e vasi sanguini. Come in The Brains of my mother and my father (2006), prima scultura realizzata su questo tema, dove sono riprodotti a grandezza umana i due cervelli dei genitori, Edmond Fabre e Helena Troubleyn, guide spirituali alle quali l’artista non manca mai di rendere omaggio. 
Comincia il viaggio delle forme. La tartaruga con il guscio trasformato in cervello è un un oracolo che ci indica la strada, un percorso di libere associazioni di forme e significati. Ciascuno di noi è una tartaruga, ciascuno di noi ha un guscio, fatto della sua conoscenza, della cultura interiorizzata e della cultura ereditata. Utilizzando la somiglianza formale, in The problem of Sisyphus (2012), tre tartarughe spostano un enorme cervello, come Sisifo faceva con un pesante masso. Così Jan Fabre rilegge il mito: “le tartarughe spingono il futuro”. La tartaruga trasporta un cervello e il cervello a sua volta trasporta simboli come si vede nella serie in bronzo Sacrum Cerebrum (2011) dove sacro e profano si sovrappongono: accanto alla croce di cristo, le ali di Mercurio. 
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The brain as a heart, 2015. Marbre, 210 x 120 x 95 cm. © Angelos bvba / Jan Fabre / © Adagp Paris 2018.

Piuttosto che un oggetto anatomico, il cervello ci appare ora come un soggetto che sente e crea. Nei 15 minuti del film Do we feel with our brain and think with our heart? (2013), l’artista si chiede proprio se sentiamo con il cervello e pensiamo con il cuore?: «Il film è uno scambio di idee tra me e Giacomo Rizzolatti: due persone con grande immaginazione, una virtù che unisce un buon artista con un bravo scienziato». Con un elettrodo in cima alla testa e cuffie capaci di misurare l’attività cerebrale, l’artista e il neurofisiologo scopritore dei neuroni a specchio riproducono i gesti delle scimmie da laboratorio. Sbucciando una banana e mangiando una nocciolina spiegano in una divertente performance le nozioni di imitazione, intelligenza e empatia. L’abituale pratica di rovesciamento mostra qui un cambio radicale di prospettiva. L’artista pensa con i suoi piedi (Brain legs – 2010) e sente con il cervello, ma soprattutto quest’ultimo, trafitto da una freccia, ha preso il posto del cuore. (The Brain as a heart – 2015). Nuova sede della passione diventa il punto in comune tra spirituale e razionale, tra divino ed umano.

Oltre all’empatia, la compassione. Al posto delle sculture di Giacometti, nella celebre corte che prende appunto il suo nome, sono disposte le cinque Pietas di marmo bianco di Carrara nelle quali si coniugano infine arte, scienza e religione. Originariamente realizzate per la chiesa di Santa Maria della Misericordia durante la Biennale di Venezia del 2011, le cinque sculture monumentali sono disposte su un pavimento dorato che ricorda un altare sacro. Dagli enormi cervelli emergono le croci accanto all’albero della vita e alle tartarughe rovesciate. Il sincretismo di simboli religiosi e pagani crea nuove icone fino all’ultimo autoritratto, Merciful Dream – Pietà V (2011), rivisitazione provocatoria della Pietà di Michelangelo, nel quale Jan Fabre prende le veci del Cristo tenuto tra le braccia da una Madonna il cui volto è sostituito da un teschio, metafora della madre che empatizza con il figlio deceduto. Il corpo vestito ma con i piedi nudi – come Paul McCartney nella celebre copertina del disco Abbey Road – tiene nella mano destra un cervello dal quale si attivano i neuroni che provocano il sentimento della compassione. Mosche, farfalle e scarabei, disseminati su tutte le opere, ci ricordano che i riti di passaggio sono vitali e che quest’ultimo autoritratto con il quale l’artista, momentaneamente, si congeda è solo l’ennesima delle sue inarrestabili metamorfosi. 

Bianca Cerrina Feroni 

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