01 luglio 2018

Wesselmann e il sesso

 
Bellezza ed erotismo, nell’arte pop di uno dei più grandi autori americani del ‘900. Villa Paloma a Monaco ospita Tom Wesselmann e il suo universo “proibito”

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La luce intensa che si riflette sulle acque azzurre del Mediterraneo, così amata dai pittori di tutti i tempi, penetra attraverso le finestre di Villa Paloma, sede del Nouveau Musée National de Monaco, che ospita la mostra “Tom Wesselmann. La Promesse du Bonheur” (fino al 6 gennaio 2019). Una luce estiva che avvolge i corpi e scalda gli animi, restituendo quel senso di perenne eccitazione che traspira dal lavoro stesso del grande interprete della pop art.

“Una mostra che sarebbe piaciuta all’artista”, spiega il curatore Chris Sharp, anche per quella vicinanza (che in questo contesto contempla pure la geografia) con Henri Matisse che insieme a Modigliani e Mondrian è una dichiarata fonte d’ispirazione per Tom Wesselmann (Cincinnati 1931, New York 2004). Lucy Lippard descriveva la serie dei suoi iconici Great American Nudes affermando proprio che “fondono gli arabeschi e la brillantezza cromatica di Matisse con la linea sinuosa di Modigliani e con la struttura rigorosa di Mondrian.”

Selezionando venticinque lavori, realizzati tra il ‘63 e il ’93 – tranne gli assemblaggi sono presenti tutte le tecniche, dal disegno al collage, dalla scultura alla pittura – Sharp, curatore statunitense di base a Mexico City, con il coordinamento scientifico di Cristiano Raimondi – curatore delle mostre e responsabile dello sviluppo e dei progetti internazionali del NMNM – e in stretta collaborazione con The Estate of Tom Wesselmann di New York da cui provengono quasi tutte le opere, ha esplorato aspetti meno prevedibili dell’opera di Wesselmann.

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Tom Wesswlmann, vista della mostra, foto Jeffrey Sturges 2018/ NMNM, The Estate of Tom Wesselmann, Lycensed by Vaga, NY

La chiave di lettura da lui proposta è racchiusa nel titolo stesso della mostra: la promessa di felicità. Un impegno formale basato su uno stato d’animo intangibile. Un paradigma, quindi, da affrontare contestualizzandolo al periodo del benessere postbellico di cui l’artista avrebbe assorbito le specificità, riportandole già nei suoi lavori d’esordio. “Una promessa di eternità, di vitalità totale”, come afferma il curatore, in cui l’eros viene rappresentato con una “leggerezza totale, a volte bizzarra, che è legata anche alla scoperta della sessualità degli anni Sessanta.”

La gioia del sesso è evocata esplicitamente dai turgidi capezzoli o dai peni in erezione, non meno che nella descrizione ambigua del regno vegetale. Nelle forme sensuali degli oggetti c’è traccia di una nota “camp”, una sorta di umorismo un po’ esagerato – “alla maniera di Almodóvar dei primi tempi” – all’interno di un’immaginario in cui la classicità del corpo umano (integrale o frammentario) ha lo stesso valore gerarchico degli oggetti stessi, sia nella bidimensionalità che nella tridimensionalità.

Così la cintura maschile nera (My Black Belt, 1983-1990) – chiaramente fallica – come il reggiseno di cartone (Dropped Bra (Big Maquette), 1978-1980) e il plexiglass da cui prendono forma le mutandine attorcigliate alle scarpe da ginnastica (Sneakers and Purple Panties, 1981), sarebbero sempre la celebrazione di quello stesso attimo carico di eccitazione – la frenesia del momento – legato sì alla sessualità, ma decisamente in una visione di possibilità di matrice consumistica: “sta giocando con quest’idea di grandiosità.”

“Si può dire che nel suo lavoro siamo entrati nella Pornotopia. Non è più pornografia, ma qualcosa che è strettamente legato al boom economico che c’era nel dopoguerra in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti”.

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Tom Wesswlmann, vista della mostra, foto Jeffrey Sturges 2018/ NMNM, The Estate of Tom Wesselmann, Lycensed by Vaga, NY

Quanto alle critiche rivolte a Wesselmann, per via dell’oggettivazione del corpo femminile in chiave sessuale dei Great American Nudes – in particolare dalle femministe negli anni Settanta – Sharp rifiuta l’ipotesi della sua misoginia. “Fondamentalmente amava le donne, soprattutto sua moglie”. Claire Selley, che conobbe alla Cooper Union quando entrambi erano studenti, fu sua moglie dal 1963 fino alla morte ed è rappresentata in vari lavori, tra cui Great American Nude #82 (1966).

“Facendo le ricerche sulla sessualità, ho letto The Other Victorians: A Study of Sexuality and Pornography in Mid-Nineteenth-Century England (1964) dell’accademico americano Steven Marcus. ”  – spiega Chris Sharp – “Un libro geniale che è stato molto citato, soprattutto nella letteratura e anche nell’arte, in cui l’autore parla di pornografia nell’Inghilterra del XIX secolo. Il problema non era tanto legato al tabù del sesso di per sé, quanto alla paura di perdere potere. All’epoca, infatti, c’era la superstizione che lo sperma fosse qualcosa di limitato: ce n’era solo una certa  quantità e dopo si perdeva. Marcus notò anche che a quei tempi, in Inghilterra, per indicare l’orgasmo al posto del termine ‘venire’ si usava ‘spendere/consumare’. Quindi una sessualità legata all’economia. La pornografia, alla fine, rifletteva questa paura di impoverimento per il troppo consumo, per questo inventarono una ‘pornotopia’ che attraverso l’immaginazione permetteva di consumare una quantità illimitata di seme. ” 

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Tom Wesswlmann, vista della mostra, foto Jeffrey Sturges 2018/ NMNM, The Estate of Tom Wesselmann, Lycensed by Vaga, NY

Un’idea interessante per una lettura trasversale dell’opera di Wesselmann, quindi, in cui “c’è sempre l’estate, la vitalità, il desiderio sessuale come ‘promessa di felicità’”. Anche la sessualità femminile, viene esplorata tracciando una parabola del piacere che prevede l’autoerotismo. Nella costruzione formale della fantasia, detto e non detto giocano in maniera decisiva nella rappresentazione di Wesselmann, in cui il desiderio e l’attesa rafforzano il concetto del conseguimento del piacere attraverso una narrativa indiretta: la gamba femminile con il piede dalle unghie laccate, sospesa nel paesaggio piatto (Seascape #10, 1966) non è meno evocativa della serie in cui la sensualità affiora attraverso il segno del costume sull’abbronzatura (il già citato Great American Nude #82). In questo palesarsi della nudità c’è anche un chiaro riferimento alla storia del costume da bagno femminile, che nel dopoguerra vede la sua evoluzione – ancora una volta la moda cammina di pari passo con l’emancipazione della donna – attraverso l’uso del due pezzi, deflagrante nella percezione perbenista non meno dei test nucleari che facevano le autorità stelle e stesce nell’atollo di Bikini, da cui l’indumento deriva il nome.

In questa mostra intensa ed equilibrata, in cui le opere hanno lo spazio giusto per dialogare tra loro senza seguire necessariamente un iter cronologico, un altro aspetto significativo è l’approccio metodologico dell’artista, di cui emerge la cura quasi maniacale nel conservare tutti i passaggi creativi – schizzi, bozzetti, maquette fino all’opera finale – come vediamo, ad esempio, in Bedroom Face with Lichtenstein (Artist’s Variation) (1988-1992), realizzata su alluminio sagomato e nel modellino Maquette for Bedroom Face with Lichtenstein (3-D) (1989) o nel piccolo disegno su carta a matita, pastello colorato e acquerello Study for Tongue Out Stockinged Nude (1968 c.).

Passaggi intimi in cui l’immaginario collettivo spazia, librando fantasie che aspirano all’immortalità.

Manuela De Leonardis

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