16 giugno 2018

Palazzo Butera, il senso di futuro del passato

 

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Il mio tour sulle tracce di Manifesta 12 comincia con Palazzo Butera. Situato nell’antico quartiere della Kalsa, questa avita magione è appartenuta alla nobile famiglia dei Branciforte, che nel corso del tempo ricevettero l’investitura di principi di Butera. Dopo un passato glorioso che data a partire dal XVIII secolo, nel corso del Novecento il palazzo ha conosciuto un lento e inesorabile declino, aggravato dalla presenza infestante di uffici pubblici e di una scuola. Poi, come sta avvenendo per altri luoghi simili del centro del capoluogo siciliano, la svolta con l’arrivo provvidenziale di mecenati, o forse meglio, di filantropi intelligenti, come Francesca e Massimo Valsecchi. A loro, infatti, si deve l’imponente restauro in corso, con un cantiere ancora in bella vista al mio arrivo, e un nugolo nutrito di operai all’opera, guidati da Marco Giammona. Negli spazi concessi alla biennale nomade europea colpiscono e risultano particolarmente convincenti i lavori di Maria Thereza Alves (San Paolo, Brasile, 1961), Renato Leotta (Torino, 1982) e di Uriel Orlow (Zurigo, 1973). Conto di parlarvene più approfonditamente in un prossimo primo piano. In questa breve pagina del mio diario palermitano preferisco soffermarmi su ciò che mi ha instillato la visita a Palazzo Butera: un’impressione che, giorno dopo giorno, si sta confermando in una convinzione. E cioè che il contenitore di questa edizione di Manifesta 12, cioè la città di Palermo, sia talmente imponente di arte, densa di vissuto e storia, madida di integrazione tra civiltà, culture, confessioni religiose, scavata di tradizioni e superstizioni, da diluire abbondantemente gli esiti formali, gli echi concettuali, i riverberi delle riflessioni che informano i pur apprezzabili lavori in mostra. I processi che sono propri dell’arte contemporanea sono stati già percorsi, per quanto inconsapevolmente, lungo le strade di Palermo, un’installazione performativa a cielo aperto, una sintesi sorprendente del senso di futuro del passato. Un passato che non relega l’arte, con le scuole dei Serpotta e dei Cagini, a una mera valenza estetica. Perché qui l’arte ha manifestato nei secoli una straordinaria resilienza operativa, tra invasioni e devastazioni. Palazzo Butera ne reca ancora evidenti le tracce, a partire dallo squarcio di un suo soffitto affrescato per ospitare nientedimeno che un lucernaio, praticato nei decenni scorsi quando l’edificio era stato destinato a scuola. Squarcio che oggi, se non fosse stato provocato dalla stupidità di una certa burocrazia, avrebbe tutte le carte in regola per rientrare nell’alveo di ricerca di più di un artista tra quelli invitati alla biennale in atto a Palermo. Si sarebbe definita la sua opera visionaria. Ma qui, nel capoluogo siciliano, mi rendo conto di quante visioni a cui oggi si assiste tra fiere e mostre d’arte internazionali siano già realtà, anche un po’ ingiallite, come le fodere dei materassi abbandonati lungo alcuni cigli delle strade. Oppure i cartoni marcescenti ammucchiati intorno ai cassonetti dell’immondizia. (Cesare Biasini Selvaggi)

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