04 giugno 2018

L’Io è una ballata solitaria

 
A Punta della Dogana va in scena l’identità “incrinata”, tra denuncia sociale e “soggetti in crisi”, per una grande collettiva che colpisce nel segno targata, ovviamente, Pinault

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Nel 1985 Billy Idol lancia il suo brano Dancing with myself, inno all’edonismo degli anni Ottanta, e undici anni dopo Bernardo Bertolucci presenta Io ballo da sola, uno dei film recenti più inquietanti del grande regista italiano. Un soggetto suscettibile di diverse interpretazioni, che oggi torna alla ribalta grazie alla collettiva “Dancing with myself” a Punta della Dogana, curata da Martin Bethenod e Florian Ebner: una mostra che mette a confronto opere provenienti da due collezioni (Fondazione Pinault e museo Folkwang di Essen) sul tema della «Rappresentazione di sé e sull’uso che gli artisti fanno del proprio corpo, della loro immagine e della loro persona», spiega Ebner. «Il titolo sottolinea l’idea di un corpo che si mette in movimento per esprimere o rivelare qualcosa» aggiunge Bethenod, per delimitare in maniera precisa il territorio d’indagine. E la mostra, fin dagli esordi, si presenta come una panoramica ampia e interessante, con alcuni picchi di incredibile qualità, come l’intenso e raro Delfo II (1968) , un misterioso autoritratto fotografico stampato su tela di Giulio Paolini, o i primi scatti di Cindy Sherman, da Doll Clothes (1975) alla serie Bus Riders (1976) che precedono i celebri Untitled film still (1978), presentati insieme all’ultima serie Untitled (2016) forse non strettamente necessari nella visione d’insieme della rassegna. 
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Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina
Come spiega Abigal Solomon-Godeau, nel suo testo Chi è il sé con cui si danza? Ovvero l’artista non è presente, pubblicato nel catalogo Marsilio, ricco di saggi brevi ma puntuali, “Gli artisti in mostra mettono in discussione l’idea rinascimentale di autoritratto, solida e affermativa, per presentare invece un’identità incrinata”, che si definisce attraverso frammenti, tautologicamente autosufficienti. Non c’è traccia di autorità nei corpi frammentati fotografati da John Coplans, né nei primi piani sfocati ed incerti di Bruce Nauman, per non parlare della gamba di Robert Gober (Untitled, 1991). 
Così in “Dancing with myself” si incontrano due modalità diverse di autorappresentazione nell’era pre-internet. Da una parte l’ossessione per la propria immagine, che diventa strumento di denuncia politica e sociale, come nelle opere di Adel Abdessemed (Je suis innocent, 2012), Latoya Ruby Frazier, Lee Friedlander (notevole Philadeplhia, 1965) e, last but not least, Gilbert & George, presenti con una serie di lavori degli anni Settanta come Cherry Blossom N.9 (1974) o Bummed (1977), accostati ad opere più recenti come Blood Tears Spunk Piss (1996). 
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Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dall’altra immagini di corpi sofferenti, mutevoli o addirittura scomparsi per lasciar posto ad oggetti, tracce e metamorfosi in atto, risultato di quella che la Solomon-Godeau definisce come “La crisi del soggetto”. Una crisi ben visibile sul volto dell’artista, ritratto in tre diverse fasi di invecchiamento da Rudolf Stingel, in una delle sale più intense della mostra, o dal corpo di Urs Fisher, seduto ad un tavolo con una bottiglia davanti, che alla fine della mostra sarà ridotto ad una montagna di cera colorata. O ancora, con un filo di ironia, da We (2010) di Maurizio Cattelan, disteso sul letto di morte con due corpi gemelli, in abiti blu e neri, in omaggio ad Alighiero Boetti. Il tema del corpo in movimento è presente nel dialogo tra le opere video di Ulrike Rosenbach e Lili Reuynaud-Dewar: se il ritratto sfocato della prima si sovrappone a quello di una Madonna del Rinascimento, l’opera I am intact and I dont’care (Pierre Huyge, Centre Pompidou, 2013) della seconda potrebbe essere quasi l’icona di questa interessante rassegna, con il corpo flessuoso dell’artista che balla nelle sale del Pompidou come Josephine Baker, appropriandosi della mostra di un altro artista come palcoscenico. Così, nella sua varietà di linguaggi e mezzi espressivi differenti, “Dancing with myself” centra l’obiettivo e risulta essere una collettiva equilibrata e ricca di spunti di riflessione. Da non perdere.

Ludovico Pratesi 

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