15 marzo 2018

I passi giganti alla Fondazione Memmo

 
Parla Marcello Smarrelli, curatore di “Conversation Piece IV”. Sulla tensione verso la creazione dell’arte, le corrispondenze, e la capacità di Roma di essere, ancora, sensazionale

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Una conversazione a più voci quella della mostra curata da Marcello Smarrelli presso la Fondazione Memmo, nel cuore di Roma. Dinamica ed evocativa l’esposizione è un percorso esperienziale che, attraverso diversi linguaggi e forme, sviluppa riflessioni partendo dalla dimensione trascendente a quella immanente. 
Roma è sempre stato un polo affascinante per artisti e letterati. Artigianato locale, tradizioni e costumi hanno reso questa città una tappa fondamentale del Gran Tour settecentesco. Cosa pensa che possa offrire oggi la Capitale rispetto al Rinascimento?
«Ricordo una bellissima mostra a La Galleria Nazionale, Maestà di Roma (2003), volta ad illustrare il carattere di universalità e cosmopolitismo presente a tutti i livelli della civiltà artistica maturata a Roma fino al momento dell’unificazione nazionale, riportando le opere realizzate nella città eterna, da artisti della levatura di Canova e Thorvaldsen, Hayez e Camuccini, Ingres e Granet, Turner e Corot, Böcklin e Feuerbach, Géricault e Carpeaux, Brjullov e Ivanov. A questi capolavori era accostata la produzione più significativa delle colonie artistiche straniere la cui presenza a Roma nel corso del diciannovesimo secolo esaltò la vocazione cosmopolita di una città capace di attrarre e affascinare, sottomettendoli alla forza della tradizione classica e cristiana, artisti francesi e inglesi, tedeschi e danesi, spagnoli e austriaci, belgi e olandesi, danesi e svizzeri, russi e americani. Ma penso anche gli anni del boom economico, della Dolce Vita, della presenza di artisti come Boetti, Schifano, De Dominicis, Twombly, galleristi come Plinio de Martis, collezionisti e mecenati come il barone Giorgio Franchetti, registi straordinari come Pasolini, Fellini, Rossellini, lo stesso Visconti e tanti altri. La ricchezza di Roma come luogo di ispirazione, di laboratorio di idee è inesauribile e ne fa un luogo straordinario ma anche difficile, che va conosciuto profondamente al fine di poterne sfruttare tutti i vantaggi. Bisogna conoscere in modo capillare questo territorio complesso in cui si deve operare e, come le vicende storiche di Roma insegnano, avere un occhio puntato sulla realtà più intima della città e uno sull’ambiente internazionale, sul mondo. Roma non è una città come le altre, bisogna conoscerne molto bene il passato per poterne progettare il futuro, senza improvvisazioni o sensazionalismi inutili, visto che qui è già tutto sensazionale».
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Eric Baudelaire Walked the Way Home, 2017, Video e stereo sound, 25 min Courtesy l’artista

Nella storia della museologia si è passati da un’idea di museo classico pieno di collezioni utili a educare lo sguardo e la mente all’arte. Poi col passare del tempo ci siamo diretti ad un’idea più evoluta, con allestimenti di tipo esperienziale, sviluppando senso critico e immaginazione nel pubblico. Anche la Fondazione ha avuto queste fasi, passando da un contesto più storicizzato ad uno più contemporaneo. In “Conversation Piece Part IV” si parte dal “nulla cosmico”, dalla luce che sembra non illumini, fulcro di energia di Keller arrivando sino alla documentazione video di Baudelaire, la cui proiezione ci rimanda a uno schermo di un comunissimo smartphone. Dalla sfera trascendente a quella immanente. Come ha scelto questo allestimento? Quali sono state le “linee guida” per poter riuscire a mettere in comunicazione tanti stili e dimensioni diverse tra loro?
«Naturalmente non individuiamo solo artisti in residenza nelle varie accademie, ma cerchiamo di captare ogni tipo di presenza attiva sul territorio o con un legame con esso. I temi sono ogni anno diversi e nascono dall’osservazione del lavoro degli autori: diciamo che il criterio è quello di trovare degli aspetti comuni negli approcci e nelle poetiche degli artisti invitati, senza tuttavia vincolarli troppo. Il tema è infatti sufficientemente “aperto” da poter permettere la coesistenza di pratiche anche agli antipodi. Se c’è un filo rosso, direi che possa essere rintracciato nella volontà di concepire la mostra come un dialogo a più voci, un momento di incontro tra gli artisti stessi, ma anche con la città di Roma, la sua storia, i suoi luoghi e persino il suo tessuto produttivo artigianale, visto che molte opere vengono realizzate coinvolgendo artigiani che sono continuatori di tradizioni manuali e di un “saper fare” che connota da sempre questa città. “Conversation Piece|Part IV – Giant steps are what you take” declina varie tipologie di percorsi: dal basso verso l’alto, dal reale allo spirituale, dalla figurazione all’astrazione, dalla formalizzazione potenziale di un’opera alla sua realizzazione concreta. I sei autori messi in dialogo negli spazi della Fondazione Memmo non indicano un cammino esatto verso la creazione artistica, ma delineano piuttosto una tensione verso essa, disseminando una serie di indizi attraverso le proprie opere. D’altra parte, come ricordava Maurice Meleau-Ponty “L’espressione è come un passo nella nebbia: nessuno può dire dove e se da qualche parte condurrà”». 
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Jörg Herold Dschanna. Prophetisch Grün – Leipziger Tor zum Paradies, 2017Tecnica mista, dimensioni ambiente Courtesy Galerie EIGEN + ART Leipzig/Berlin

Il titolo della mostra è tratto dalla nota canzone dei Police, Walking on the moon, dove si sottolinea esplicitamente l’atto del “camminare” come esplorazione fuori dagli schemi, guidata dalle emozioni, priva della “costrittiva” forza di gravità terrena. La dimensione amorosa nella quale è stata categorizzata la canzone limita il suo potenziale. A mio avviso, il cammino a cui si fa riferimento non appartiene ad un solo individuo, ma ad un’intera collettività che, appunto, fa “dei passi da giganti” (Giant steps are what you take) partendo da “casa propria”(Walking back from your house) cioè dalle proprie origini. Ritornando alla mostra, ritiene che gli artisti abbiano riportato nelle opere i loro “background”? 
«Il tema dei “passi” è stato declinato in maniera assolutamente personale da ogni artista: i lavori di Yto Barrada (Parigi, Francia, 1971) si presentano come maquette, fase intermedia di un percorso di produzione di opere che saranno presentate in una prossima mostra personale dell’artista al Barbican di Londra; il video di Eric Baudelaire (Salt Lake City, Stati Uniti, 1973) è frutto di vere e proprie promenade nei centri delle città europee, di cui sottolinea l’inedita presenza – estraniante e invadente – delle forze armate in assetto da guerriglia urbana; la scultura di Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) riproduce i dodici passi che l’artista ha compiuto per molti mesi come esercizio fisioterapeutico, chiamando così in causa un elemento autobiografico; Jörg Herold (Lipsia, Germania, 1965) propone un intervento ambientale che, partendo dai 99 nomi attribuiti ad Allah e altre immagini con un forte senso del sacro, evoca un cammino iniziatico, un percorso ascensionale e spirituale; l’installazione di Christoph Keller (Berlino, Germania) riflette sottilmente sulla natura del momento che precede l’atto della creazione – il nulla – attraverso la presenza discreta eppure incisiva di un neon che sembra non emettere luce; Jakub Woynarowski (Cracovia, Polonia, 1982) compone infine sulle finestre di Palazzo Ruspoli che si affacciano su via del Corso un atlante di segni e simboli ricorrenti nelle diverse epoche, delineando così un percorso storico artistico fatto di corrispondenze inattese e misteriose che mettono in discussione le periodizzazioni cui siamo abituati e il ruolo dirompente delle avanguardie».
Valentina Muzi 

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