08 marzo 2018

Teatro Alekos

 
L’omaggio per Alekos Panaguls, “che sconfisse i colonnelli”. Secondo Giancarlo Cauteruccio, a Firenze
Di Giulia Alonzo

di

Una griglia di grandi assi inclinate invade la sala, il palco è un intreccio di tronchi rossi, una gabbia sospesa a pochi centimetri dal pavimento. Tra le luci basse, con una tuta blu da operaio, fermo in una delle caselle della griglia, Alekos si rivolge a una figura che avanza nella penombra: è Dalì, lo scarafaggio in gilet nero di pelle e dalle movenze viscide.  
Inizia così Prigionia di Alekos, messa in scena di Giancarlo Cauteruccio al Teatro Niccolini di Firenze, basato sul testo di Sergio Casesi, il vincitore del Premio Pergola per la nuova drammaturgia. Partendo dal romanzo-testimonianza di Oriana Fallaci Un uomo, Casesi vuole rendere omaggio ad Alexandros (Alekos) Panagulis, esempio di tenacia e forza rivoluzionaria, di fede negli ideali di libertà, nel nome del cambiamento: “colui che sconfisse la dittatura dei colonnelli con la poesia e la creatività ci permette di indagare i valori profondi dell’esistenza umana, i fondamentali della vita, elevando la libertà individuale a spazio politico condiviso, a pensiero etico e spirituale. In Prigionia di Alekos l’immaginario di Panagulis viene messo in scena prendendo il sopravvento sulla realtà che pure c’è e si fa sentire attraverso la tortura, la privazione, l’incubo e l’umiliazione”.
null

Prigionia di Alekos, ph Filippo Manzini

Sono proprio la tortura, la privazione e l’incubo i veri protagonisti dello spettacolo: un’ora circa di monologhi tra Alekos (Fulvio Cauteruccio) e i suoi incubi, le sue proiezioni (come Dalì, interpretato da Domenico Cucinotta) e suoi aguzzini. La gabbia sul pavimento limita i movimenti degli attori in scena, diventa la cella-tomba nella quale Panagulis è stato rinchiuso quattro anni. Non c’è via d’uscita e la scenografia, anche se alla fine si alza verso il cielo, aumenta la sensazione di impossibilità.
Gli unici momenti di confronto si ritrovano nei dialoghi con le stelle e con una voce di donna che Panagulis inizia a immaginare. È qui che la mente cerca la fuga, mentre l’arena del teatro viene illuminato da video proiezioni dal sapore demodé. Nonostante Casesi sottolinei che è “nel buio che Alekos trova la forza”, nella sua storia e nella sua prigionia non c’è solo la sottomissione, ma anche, e forse sopratutto, la poesia e il bisogno di riscatto. Panagulis, imprigionato e torturato dai colonnelli golpisti, liberato nel 1973 e morto nel 1976 in un misterioso incidente d’auto, è diventato un esempio e un mito per i giovani rivoluzionari in tutto il mondo. 
Ma tutto questo, nel testo e nello spettacolo, compare solo nel momento in cui il medico Calidonio dichiara di rifiutarsi di portare fuori dalla cella le garze dove il prigioniero ha scritto le sue poesie. Non si parla di rivincita e la rassegnazione ha il sopravvento, fino alla morte. Alekos, come sottolinea Casesi nelle note di accompagnamento al testo, vuole dimostrare che “la libertà di un individuo può inceppare un sistema”. Nello spettacolo però non si coglie questo sistema che si blocca. Ma in un momento politico come quello che
stiamo attraversando abbiamo bisogno di un testimonial della libertà e dell’antifascismo come Panagulis.
Giulia Alonzo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui