29 gennaio 2018

ARTS & CRAFTS

 
Storia di designboom, una intuizione da quattro milioni di lettori l'anno. Intervista a Luca Trazzi
di Matteo Bergamini

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Nato a Verona nel 1962, Luca Trazzi con Massimo Mini e Birgit Lohmann è stato fondatore di una delle riviste più cliccate del web: designboom. Nata sul finire degli anni ’90, costantemente rinnovatasi nelle grafiche, oggi ha un database di circa 450mila articoli e una media di 4 milioni di lettori l’anno, con redazioni a Milano, New York e Pechino. E proprio in Cina incontro Trazzi, Paese che lui reputa di immensa ispirazione, per farmi raccontare un’intuizione epocale che però ora deve guardare al domani. 
Sia Exibart che Designboom sono nati negli stessi anni, facendo newsletter…
«Sì, noi facevamo interviste che venivano pubblicate nella newsletter di un portale chiamato Buongiorno.it, dedicate ad architettura, design e car-design, come prime cose».
Dicevi che Designboom è iniziato tra te e due altri amici (Mini e Lohmann) coinvolgendo altri amici: Matteo Thun, Mendini, Alberto Alessi, Magistretti…Avresti mai pensato che la comunicazione sarebbe diventata come la conosciamo oggi?
«Prevedevo un futuro. Io sono stato il primo nello studio di Aldo Rossi a portare Autocad: tutti all’epoca lavorano a rapidograph. E così, con tre competenze e un parterre di conoscenze  differenziate, abbiamo immaginato un prodotto diverso, qualcosa di flessibile che all’epoca, nella staticità dei magazine, era impossibile trovare. Paradossalmente, oggi, il problema è un altro: tutto viene bruciato talmente in fretta che a volte diventa anche difficile capire se un progetto è reale o meno».
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Sweco architects, Diving tower
Che intendi?
«Per esempio forzando i social media tu puoi creare un progetto che sembra perfettamente realizzabile o realizzato o in fase di produzione e invece si tratta di qualcosa che non c’è. Ora serve una riflessione, bisogna cercare una nuova strada».
Che potrebbe essere?
«Siamo arrivati a 5mila articoli a disposizione a settimana: è troppo».
Soluzioni? Tornare alla carta?
«Non so se sia la strada giusta, ma sicuramente si deve guardare a un’altra dimensione. Con il mio progetto dei fiori-neon nel giardino di Alessandro Manzoni, alle Gallerie d’Italia di Milano (lo spazio è della banca attigua) sono riuscito a far tenere aperto fino alle 19, e a dare le possibilità alle persone di scoprire un luogo quasi segreto. L’avessi fatto online avrei avuto magari migliaia di visualizzazioni ma zero esperienze. Non è che se metti “like” hai partecipato a un progetto».
Le riviste online però forse hanno avuto un concorso di colpa, in questo spamming di informazioni…
«Una volta attraverso il nostro sito facevamo concorsi per giovani designer, c’era una giuria e abbiamo portato in produzione anche progetti di tanti nomi che poi, nel tempo, sono diventate personalità riconosciute. Ora lo sponsor non è più interessato alle “gare online”, preferiscono “adottare” un giovane e fargli fare progetti che magari a volte non sono nemmeno reali, o pensare a macrotemi. E poi non c’è solo l’online, ci sono anche tutti i social. C’è una tempesta oggi: per questo io ho deciso di non avere facebook, twitter e nemmeno whatsapp, nonostante abbia una società che lavora sul web. E volte infatti mi trovo a vedere cose che gli altri non vedono, e viceversa».
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Cake Kalk, electric motorcycle
Come funziona la redazione di Designboom?
«Abbiamo un team di 15 persone a Milano, 5 a New York e poi siamo partner con un dipartimento del governo cinese e ne abbiamo 20 anche in Cina. All’inizio proponevamo noi progetti da pubblicare, ma ora quello che ti frega è la velocità di comunicazione: se non sei veloce a buttare fuori le notizie gli altri ti bruciano. Quello che possiamo fare, ovviamente, è avere delle nostre linee editoriali cercando, insomma, di prenderci anche un po’ di tempo per riflettere. È più difficile sui temi “generali”. Molto spesso, anche per i contentuti pubblicitari, ci vengono richieste determinate forme di comunicazione, soprattutto in funzione dei social media».
La riflessione…un bel tema in una società che divora se stessa in nome di un costante rinnovamento…
«C’è da dire che questa “forma” è lo specchio dell’attualità: io ho vissuto cinque anni a Shanghai e la città è cambiata a un ritmo così vertiginoso che oggi paga uno scotto fortissimo, vedi con l’inquinamento, e la società invece deve “pagare pegno” sostenendo progetti che apparentemente possano dare un riscatto alla cittadinanza. Bisognerebbe cercare di fermarsi un attimo, e “fermare” è una parola folle in questa spirale che vuole sempre e sempre più, e che digerisce immediatamente tutto. A volte, addirittura, è impossibile anche trovare i vecchi progetti. Bisognerebbe ritrovare invece la possibilità di scelta, che oggi pare impossibile nella velocità».
Come si scoprono le nuove tendenze?
«Anche nel design molto spesso non si tengono i reali consumi. Io per esempio mi giro le fiere asiatiche più consumistiche, quelle che le pubblicazioni di settore non prendono nemmeno in considerazione e che però mostrano le trasformazioni in atto. Qui vedi migliaia di persone che, in base a quello che comprano, creano il futuro e lo anticipano. È necessario, a volte, scavare un po’ nella spazzatura». 
Matteo Bergamini

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