20 ottobre 2017

TEATRO

 
La cronaca in scena, con un gruppo di attori-bambini. Milo Rau a Milano, per raccontare un'identità e una tragedia
di Giulia Alonzo

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Era il 1917 quando Igor Stravinsky compose le Cinq pièces faciles, una sequenza di cinque componimenti “facili” per formare giovani pianisti. Nel 2005, al Guggenheim Museum di New York, Marina Abramović con Seven Easy Pieces ripropone sette performance che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea tra gli anni Sessanta e Settanta. 
Milo Rau, regista saggista e giornalista svizzero, usa la tragica vicenda del serial killer Marc Dutroux, che tra il 1985 e il 1996 ha sequestrato e torturato sei bambine, uccidendone poi quattro, per scandagliare la capacità di un Paese di costruire la propria identità partendo da una crisi nazionale. 
Ma la tragedia diventa momento per formare, attraverso la ricostruzione degli eventi, sette giovani attori al crudele gioco del teatro. Sono infatti sette bambini (provenienti da CAMPO, Arts Centre di Gent), della stessa età delle vittime, i protagonisti di Five Easy Pieces, messa in scena in cinque quadri della storia che ha unito il Belgio, prodotto da IIPM (International Institut of Political Murder, factory fondata da Rau nel 2007) e portato per la prima volta a Milano dal Teatro dell’Arte. 
Formatosi con il sociologo Pierre Bourdieu e il filosofo Tzvetan Todorov, Milo Rau, dopo quindici anni di carriera, ha ormai uno stile inconfondibile scandito da una attenta analisi filologica e sociologica degli avvenimenti e dei luoghi in cui essi avvengono, come ha dimostrato anche con il suo primo lavoro teatrale Last Days of the Ceausescus (2009) sul processo farsa al dittatore rumeno Nicolae Ceausescu. Un altro elemento ricorrente nei lavori di Rau è la continua contrapposizione tra reale e finzione, un continuo gioco metateatrale che disorienta e, per certi aspetti, ne acuisce il risultato. 
TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez milo-rau
TTDA, Milo Rau, Five Easy Pieces, ©Phile Deprez
Hendrik Van Doorn entra in scena e si siede a una scrivania, davanti a una telecamera. Inizia l’interrogatorio ai giovani attori in scena, chiamati per nome, uno alla volta, e invitati a rispondere a delle domande: da semplice colloquio/intervista, man mano che il dramma si compie, le domande diventano più complesse, suscitando nei bambini riflessione e auto analisi. Un grande schermo rimanda l’immagine del volto del Van Doorn, regista amico e interrogante nemico che, nel  perverso gioco del teatro, incarna Dutroux: lo schermo si fa mezzo di potere, elemento che distanzia la realtà dalla finzione. 
Il primo dei cinque quadri è il collante tra questo “prologo” di presentazione e la vicenda vera e propria, l’elemento che unisce i due livelli metateatrali su cui si basa lo spettacolo per l’intera ora e mezza: la dichiarazione di indipendenza del Congo nel 1960, prima colonia belga, e dell’assassinio di Patrice Lumumba. Ecco che anche in Five Easy Pieces, Rau parte da un’analisi filologica e sociologica della vita di Dutroux, continuandola poi anche nella second piece “Padri e figli”: cosa fare se nostro figlio è un assassino?
Il terzo quadro, “Saggio sulla sottomissione” si apre con Blanche, la più piccola del gruppo, che rannicchiata sopra a un nudo materasso, è invitata da Van Doorn a spogliarsi: una, due, tre volte prima che la bambina inizi a togliersi maglione e pantaloni, rimanendo in biancheria, Blanche si sottomette al gioco del palcoscenico. La telecamera inquadra quindi il suo volto minuto che inizia a recitare una straziante lettera che una delle vittime aveva scritto ai genitori durante la prigionia in una fredda e sporca cantina di Marsinelle. Un momento alienante grazie al quale si svela il vero volto del carnefice e si assotiglia la linea tracciata da Rau che separa l’interpretazione dal reale.
La disperazione dei genitori è il tema del quarto quadro “Soli di notte” dove due bambini interpretano i genitori di una delle vittime. Solo nel quinto quadro dal titolo pasoliniano “Cosa sono le nuvole?” si torna a respirare: prima il funerale di una delle vittime e finalmente la ribellione delle piccole vittime attraverso la straziante allegoria poetica dei burattini che riescono a vedere il cielo. 
Far portare in scena il dramma da bambini è doppiamente controverso e ambiguo, una pubblica accusa a un Paese che non è stato capace di proteggerli. Ma i bambini giocano, e il pubblico, attento voyeur, si fa complice, ridendo delle ingenuità di cui solo i i più piccoli sono capaci. In una intervista al “Guardian”, è lo stesso Rau che dichiara che usare bambini in scena sia servito per avere il giusto distacco dagli eventi, grazie alla loro capacità di suscitare riso anche quando si parla di argomenti tristi. Strano quindi come lo spettacolo sia sconsigliato alla visione degli stessi coetanei degli attori. 
Se il progetto è pensato come momento di formazione, ci si domanda se e in quale modo i bambini siano cresciuti in questo percorso, se siano riusciti a dare un volto alla violenza, senza che il narcisismo dell’attore abbia preso il sopravvento, riflettendo sull’identità di una nazione e concretizzando l’immaginario di un teatro politico. 

Giulia Alonzo

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