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Sono tra i più citati sulle riviste di arte contemporanea di tutto il mondo, ospiti chiacchieratissimi alle mostre, autori di interventi estremi, azioni sovversive e petizioni. Soprattutto petizioni. Si tratta degli animalisti che, dopo le proteste contro la performance di Hermann Nitsch al Dark Mofo e la mostra di Damien Hirst a Palazzo Grassi, entrano a gamba tesa in “Art and China after 1989: Theater of the World”, mostra in apertura il 6 ottobre, al Guggenheim Museum di New York.
L’esposizione traccia il profilo della sperimentazione artistica cinese più recente, dando come termini cronologici il 1989, anno delle proteste di piazza Tienanmen, e il 2008, quando a Pechino si svolsero i giochi olimpici, un percorso visivo e storico che va dalla Guerra Fredda alla globalizzazione. Tra le 150 opere in mostra, agli animalisti non è andata giù Dogs That Cannot Touch Each Other, performance di Sun Yuan e Peng Yu’s, in cui alcuni pitbull sono messi l’uno di fronte all’altro, legati a dei tapis roulant in modo da non potersi toccare. La cosa non è piaciuta e puntualmente è scattata la petizione online per esercitare pressione sul Guggenheim e far togliere il lavoro. Il museo ha risposto difendendo con decisione la scelta espositiva, precisando che dell’opera ci sarà solo un video e che, in ogni caso, gli animali coinvolti nella performance originale non hanno subito alcun maltrattamento. Pronta la replica della PETA, l’organizzazione no-profit a sostegno dei diritti animali che qualche settimana fa ha riportato una vittoria nella famosa querelle Naruto vs Slater: «Gallerie e musei non dovrebbero aver paura di dire di no a quell’arte che tratta esseri viventi come se fossero oggetti».
In effetti, in questa opera, come in quelle di Nitsch e Hirst, gli animali giocano un ruolo fondamentale ma più come elementi di un linguaggio che come oggetti. E questa è una differenza sottile ma sostanziale, che rende un’opera d’arte qualcosa di diverso rispetto a un allevamento intensivo. (MFS)