14 settembre 2017

Il tempo oltre

 
Gli schermi performativi di Rosa Barba trasformano lo Shed dell’HangarBicocca in un proiettore che scandisce il limite dell’umano. E traccia scenari futuri

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Tac. Tac. Tac. Nello Shed di HangarBicocca dei proiettori sputano ritmicamente fasci di luce che colpiscono schermi, lastre traslucide, pareti, finestre, immerse in sonorità meccaniche e ripetitive: un set efficace in cui Rosa Barba (Agrigento, 1972) intercetta i meccanismi senza scampo del tempo, che indifferente batte il ritmo dell’esistere.
Entrando, subito, in fondo, il vuoto inquietante dei quattro schermi che compongono Hear, There, Where the Echoes Are (2016) ci attrae irresistibile. Ci avviciniamo, ipnotizzati da quelle superfici sferzate da luci ritmiche dalle cromie alternate. Schermo rosso. Siamo lì, smaniosi di vedere oltre quel vuoto apparente, ma l’unica cosa che riusciamo a scorgere è la nostra sagoma senza volto, che compare e scompare allo scatto secco dell’otturatore che si apre e si chiude. Cambiamo schermo. Ora giallo. Arancione. Ancora rosso. Riproviamo, ci spostiamo, ma il nostro profilo incollato ci insegue, schermo dopo schermo, colore dopo colore, come l’eco assordante del nostro limite nel vedere oltre. Ci assale improvvisa la consapevolezza amara di essere solo la breve comparsa di un film che si ripete senza fine, solo il frammento qualunque di una pellicola che si consuma inesorabile. Dopo di noi l’otturatore continuerà ancora a scattare e il proiettore a vomitare luce, intrappolando nuove sagome su nuovi schermi che non potremo vedere, macinando pellicola, frammento dopo frammento, sequenza dopo sequenza. Tac. Tac. L’esistenza di qualcun altro si esaurirà in un tempo oltre che non sarà nostro. E poi, di nuovo, il battito invisibile di ogni divenire per l’ennesima volta si ripeterà nel suo loop perfetto, meccanico, identico come il rodere sordo della pellicola che si morde la coda oltre il vetro infrangibile delle tre sculture cinetiche esposte: Coupez Ici (2012), Only Revolutions (…that get accomplished…) (2012/2017) e A Shark Well Governed (2017). Quasi una prova infallibile che il tempo continua a sfuggirci anche quando ci illudiamo di tenerlo in pugno o semplicemente abbiamo smesso di sentirlo battere.
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Rosa Barba, “From Source to Poem to Rhythm to Reader”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio
L’angoscia punge e forte è l’impulso, di tutti noi che stiamo lì, calamitati dal nero anonimo delle nostre sagome, di fissarle in uno scatto, di immortalare quell’attimo in cui siamo stati i protagonisti della scena, i registi di un tempo tutto nostro. Ma l’esito che osserviamo, frustrati, sullo schermo del nostro smartphone non è che l’eco rimpicciolito del nostro limite, il duplicato sterile di un istante ormai andato, morto, inghiottito dal tempo che è sempre già oltre.
Possibile che siamo destinati ad essere soltanto come uno dei tanti pezzetti di nastro esausto sputati a terra dalla macchina da scrivere di Spacelenght Thought (2012)? Pellicola che si sbriciola tra le mani di un regista invisibile. Niente di più. L’incubo peggiore di avere una scadenza, che abita l’inconscio collettivo insieme all’idea insopportabile che ci sia un dopo oltre l’umano estinto, prende forma in Subconscious Society, a Feature (2014), film in 35 mm che ipotizza gli scenari desolati di un tempo senza l’uomo. 
Luoghi martoriati, paesaggi deturpati, oggetti corrosi, edifici abbandonati, costruzioni al collasso sono le uniche tracce del passaggio di un’umanità ormai assente. Ma qualche costruzione devastata come fossile malconcio di pratiche umane in disuso è l’unico modo di esserci ancora dopo di noi? 
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Rosa Barba, Sight Enables Us to Appreciate Distance, 2013/2016; veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio Collezione privata
In From Source to Poem (2016) l’artista sembra offrirci un’alternativa. Il film in 35 mm, realizzato in occasione della mostra e girato all’interno del più grande centro di conservazione audiovisiva (la Library of Congress di Culperer in Virginia), individua nell’archiviazione frenetica del nostro patrimonio culturale l’unica forma di sopravvivenza umana nel deserto che incombe e su cui di continuo stacca la cinepresa, quasi a sottolinearne l’avanzata inesorabile. Non è mummificando il sapere sotto teche asfittiche con l’ossessione di conservarlo identico che sopravviveremo, ma è attraverso forme di archiviazione aperte e manipolabili che il pensiero umano continuerà a circolare, a rimescolare le carte, proiettando nuove visioni, costruendo nuovi sensi con linguaggi inediti per altri in grado di decifrarli, in quel tempo oltre in cui non ci saremo. 
Le lettere dell’alfabeto, dopo essersi sgretolate, pulseranno ancora e gli intrecci casuali di senso prospettati in The Long Poem Manipulates Spatial Organizations (2014), le sovrapposizioni speculari in loop di testi e suoni di A Home for a Unique Individual (2013), lo scorrere asincrono di un testo apparentemente insensato all’interno della lightbox di Sigh Enables Us to Appreciate Distance (2013/2016), risulteranno d’un tratto comprensibili da un punto di vista posto alla giusta distanza per saperli cogliere. 
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Rosa Barba, From Source to Poem to Rhythm to Reader, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio
Il sapere, la sua trasmissione, la memoria sono l’unica garanzia di sopravvivenza, sembrano indicarci i protagonisti di The Empirical Effect (2009), gli abitanti di Ottaviano, paesino alle pendici del Vesuvio, dove i sopravvissuti all’eruzione precedente tramandano la corretta via di fuga per resistere alla minaccia incombente della fine, incarnata dal vulcano. È la conoscenza archiviata, insomma, che ci permette di non essere soltanto degli effetti empirici e inconsapevoli di un divenire cieco che a poco a poco ci cancella, ma di rappresentare il tassello indispensabile affinché la macchina del sapere umano continui a battere. Noi rimarremo lì, capitolo indelebile di un testo incompiuto sempre pronto a riscriversi, inseguendo il profilo abbozzato di una possibilità di senso ancora inespressa.
Le verità di oggi collasseranno, senza scampo, nel tritacarne implacabile del tempo per poi però riscriversi mutate ed essere colte, domani, dallo sguardo conferme del nuovo lettore che le avrà partorite: “From Source to Rhythm to Poem to Reader”. Così, dall’origine dell’uomo per tutta quell’unica scheggia di eternità che ci sarà concessa, per l’intero tratto di quel tempo oltre che ci sarà consentito percorrere.
La macchina da scrivere del sapere continuerà a battere ostinata. Tac, tac, tac…

Martina Piumatti

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