31 luglio 2017

Mille per l’arte

 
Immaginiamoci immense azioni “on the road”, quasi delle parate. Come si inciderebbe sull'immaginario pubblico, tralasciando lo spazio artefatto di gallerie, biennali e musei?

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Amburgo 5 luglio 2017: un migliaio di uomini e donne rivestiti di una patina grigiastra, spuntando da ogni angolo del centro iniziano a camminare come morti viventi, sotto gli occhi dei passanti che scattano foto con i telefonini. All’improvviso uno degli zombi si sveglia dal suo letargo e, accorgendosi della grigità sua e dei compagni di strada  ancora in trance, inizia a sfregarsi la pelle del viso, gli abiti, a togliersi la giacca, scoprendo pian piano il colore naturale della vita, spingendo i suoi vicini a fare altrettanto, fino a quando in pochi minuti i morti viventi tornano a sorridere, a ballare, ad abbracciarsi, urlare di gioia, svestirsi, correre per la città.
L’azione (che ha ricevuto grande attenzione mediatica), ha un titolo ed un autore: 1000 Gestalten, opera dell’omonimo collettivo composto da circa 100 soggetti per lo più registi, attori, artigiani, psicologi, architetti, designers, coadiuvati da volontari reclutati in tutta Europa, “Teste creative di ogni  ambito riunitesi per esprimersi in modo creativo”, come dichiaratomi in uno scambio di mail da Sven Kämmerer, portavoce del collettivo. L’obiettivo era protestare in modo pacifico durante il  G20 che si teneva quei giorni in città, ricordando in mezzo ad una Amburgo presidiata da polizia e sbarramenti che le strade sono di tutti e “che tutti hanno diritto a muoversi liberamente”. Ma cosa ne pensa Sven delle performance parallele dei veri e propri artisti?: «Una performance in un museo offre l’opportunità di astrarre lo spettatore dal mondo esterno. Ti dà una migliore possibilità di portare il messaggio ad un insieme di saperi diversi. Se l’azione avviene in uno spazio pubblico, ci sono sempre dei rischi: le persone che interferiscono con la performance, problemi di meteo come la pioggia, il traffico. Da un lato questo può distrarre il pubblico, dall’altra la performance può diventare qualcosa di stranamente reale. La performance può crescere nella percezione della realtà della gente, invece che essere astratta».
Il punto è ovviamente che 1000 Gestalten non è una performance in un museo, non è fatta per il pubblico delle biennali ed è composta da un numero considerevole di persone (troppe forse per poterle considerare un’opera d’arte?). E soprattutto vuole porsi come azione reale e critica verso  un evento di portata mondiale come il G20, al netto della sua studiata coreografia e del suo risvolto metaforico.
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Ai Weiwei, Fairytale Portraits, Jeu de Paume Museum, February 20, 2012
Certo il numero “1000” del titolo della performance di Amburgo per il pubblico dell’arte evoca altre opere, come ad esempio i 1001 cinesi di Fairytale che Ai Weiwei utilizzò nel 2007 per Documenta di Kassel, dichiarando in un’intervista al curatore Fu Xiaodong: «La maggior parte degli artisti usano le folle per ottenere una particolare forma, ma Fairytale è esattamente il contrario». Si riferiva forse Weiwei alle foto di Spencer Tunick di ammassi di nudi (l’artista americano è arrivato a raccoglierne pubblicamente fino a 18mila nel 2007 a Mexico City o a fare scatti di gruppo in favore di Greenpeace)?
Seppure Weiwei  dichiarò in quell’intervista di non considerare l’opera una “messinscena artistica”,   ma una registrazione fedele della vita quotidiana e delle abitudini dei 1001 cinesi coinvolti, è evidente la contraddizione: si tratta pur sempre di un’azione finalizzata ad un invito istituzionale da parte di una delle più prestigiose rassegne di arte contemporanea al mondo, che tra l’altro investì per la realizzazione dell’impresa una cifra di almeno 400mila euro (a differenza del crowdfunding di 1000 Gestalten che ha solo sfiorato i 30mila euro).
L’uso della massa come mezzo e materia d’arte ha sedotto anche Paola Pivi, che dopo aver usato 100 cinesi nel 1998 (raggruppati nello spazio di una galleria privata e fotografati), il 25 maggio del 2009 raccolse 1000 volontari (nell’opera intitolata 1000) per farli urlare all’unisono nella turbine   hall della Tate Modern di Londra contro la dominazione cinese del Tibet (amata/odiata/onnipresente Cina). Ma dentro la Tate Modern, ormai a turbine spente, cui prodest urlare? Ancora una volta un’azione protetta e astratta per un pubblico artificato. Inefficace?
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Paola Pivi, 1000, 2009 Performed as part of UBS Openings: The Long Weekend – Energy and Process, Tate Modern, 25 May 2009 Photo © Tate
C’è poi anche  un  intento  puramente  estetico/sociale nell’uso  della  massa anonima,  come  nel caso dell’artista cinese Liu Bolin che utilizzò migranti “spiaggiati” prelevati dal CARA di Mineo e dalle SPRAR di Bronte e Giarre  (ben 80, dipinti e mimetizzati nell’opera Target-Memory Day del 2013-15) ed uno terapeutico/simbolico nelle varie installazioni umane di strada di Lucy Orta, che prima con Nexus architecture a partire dal 1997 in occasione della Biennale di Johannesburg e poi con le tavolate della serie The meal (con location varie tra cui Bolzano, Mexico City, Essex, Graz, Eindhoven), è arrivata ad coinvolgere fino a 350 persone.
Se questo uso umano della massa si intreccia inevitabilmente con questioni etiche (sfruttamento di miserie umane o azione di sensibilizzazione ad esse?) ed estetiche, di sistema e prodotto artistico, 1000 Gestalten si assume dei rischi al di fuori del recinto galleristico e biennalistico. Non che in se sia  indice di superiorità, ma senza dubbio la luce di un evento on the road sta in rapporto con quella delle performance artistiche (mi si perdoni l’iperbole) come la luce superna con quella inferiore nella tradizione cabalistica: come cioè la verità e la sua copertura, similmente alla polvere grigia che viene rimossa per scoprire il colore dei morti viventi.
Proviamo però ad immaginare cosa succederebbe se l’enorme potenziale creativo degli artisti fosse messo a servizio di azioni on the road non occasionate da biennali, produzioni fotografiche, mostre o interventi nel sistema arte. Che cioè la denuncia abbandoni l’involucro inferiore di luce per portarsi in alto, farsi azione, pur con tutti i suoi carichi simbolici, senza dover trasformare la vita in arte o l’arte in vita (le cose sono ovviamente inconciliabili), ma producendo un’azione che miri a incidere sull’immaginario pubblico, che non può ridursi al pubblico immaginario del mondo artefatto dello spazio dell’arte. Proviamo?


Marco Tonelli

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