20 luglio 2017

Gaetano Cunsolo

 
Dal tramonto all’alba. Questa la durata della performance di Gaetano Cunsolo, un lavoro che si compie in un tempo dilatato, per lo più al buio, e che si genera dal suono della costruzione, che rimanda alla fatica causata dalla costruzione stessa. Il processo è il protagonista, in una dimensione spazio/tempo insolita per il lavoro e per la pianificazione, alterandone così la percezione.

di

Nome Cognome anno e luogo di nascita
«Gaetano Cunsolo 29-05-1986 Bronte (CT)»
In quale epoca e città avresti voluto nascere?
«È una cosa che pensavo quando ero bambino… Un’acrobata dell’età del bronzo a Creta che gioca con i tori. Mi ci sarei visto bene».
Qual è la prima cosa che fai appena sveglio?
«Resisto alla tentazione del caffè». 
Qual è il posto che preferisci nella tua città? 
«Lungo i binari tra Firenze e Prato». 
Quali sono i tuoi riferimenti visivi in questo periodo?
«Ci sono i grandi innamoramenti con cui ti confronti e parli per tutta la vita credo. Artisti che fanno un po’ da revisori dei conti al mio pensiero. Penso a Marcel Duchamp in primis. Andando avanti mi viene da pensare a Bruce Nauman, Douglas Hubler, Hans Hacke e ancora dopo Gabriel Orozco. Forse di questi artisti quello che mi affascina è la capacità di fare grandi spostamenti, spesso in modo quasi impercettibile. 
In questi ultimi due anni poi, per ragioni di lavoro, ho visto e ristudiato tanta Architettura, Pittura e Scultura tra il 400′ e il 500′. Mi ha divertito e appassionato moltissimo». 
Quale confine non supereresti mai? 
«Molte cose che ho fatto in adolescenza oggi non le rifarei nemmeno a pagamento. Questo mi da solidità, ma lo sento anche come un enorme limite».
Cosa è per te la fatica?
«Una questione geografica. Ma diciamo anche politica». 
Quale credi sia il punto di forza del tuo progetto per live works?
«Il mio progetto cerca di stare fuori dall’idea di evento. Non c’è una soluzione estetica a cui fa riferimento, o una formula data da testo, suono, danza o movimento del corpo. Ragiona fuori da qualsiasi logica di intrattenimento per dare solo spazio all’urgenza di una pratica.  
La drammaturgia della mia performance, se così la possiamo chiamare, è appunto questa pratica, un’azione ben definita che si plasma in aderenza ad un tempo reale, dal tramonto all’alba».
Cosa ti aspetti da questi giorni di residenza?
«Già dai primi scambi con i curatori ho capito che si sarebbero aggiunti altri piani di lettura al mio lavoro. Sono stati capaci di aprire ancora di più le mie immagini ed il mio pensiero. Hanno aggiunto. E non parlo di elementi ma di ragionamenti, di visioni. Lo staff poi è preparatissimo, anche loro reattivi e capaci di rilanciare costantemente. Con gli artisti penso sempre sia un discorso un po’ a parte. Si vive uno accanto all’altro, ci si conosce più intimamente, si stabiliscono affetti. Esistono anche delle complicazioni ovviamente. Di solito siamo portati a proiettare troppo noi stessi anche nel lavoro degli altri. Questo può essere una grande risorsa, perchè può ribaltare il punto di vista, ma anche un grande limite perchè non da spazio alla comprensione delle cose, a vedere più lontano. Penso che sia proprio per questo che lo spazio curatoriale diventa molto prezioso, specialmente all’interno di un gruppo di artisti eterogeneo».
Un aggettivo che descrive il tuo Supercontinent ideale: 
«Ingovernabile». 
Roberta Pucci

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