26 giugno 2017

Con Gilbert&George in riva al mare di Polignano, sculture viventi per un’arte morale

 

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Una pellicola del 1981 recentemente restaurata, una coppia di artisti che parlano d’amore, di cambiamenti culturali e di globalizzazione, un magnifico rendez-vous davanti al mare, al tramonto. Un’occasione unica, quella offerta dalla Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare, per incontrare e ascoltare Gilbert&George, due leggende dell’arte vivente, ospiti del museo pugliese nell’ambito della seconda edizione della rassegna Art/Movie, con la proiezione del loro film The world of Gilbert&George. La pellicola viene presentata per la prima volta nel suo restauro completo, operato dalla Cineteca Nazionale, dopo una prima proiezione nel 2016 alla Festa del Cinema di Roma senza l’audio ripulito. 
È un’opera che adopera il linguaggio cinematografico e disegnata frame dopo frame dagli artisti, i principali protagonisti della pellicola insieme alla strada e al quartiere londinese nel quale da sempre vivono, alla loro casa dalle cui finestre osservare il mondo, alla popolazione di ragazzi e ubriaconi che incrociano nei loro itinerari quotidiani, tra monologhi poetici e dissacranti con voce fuori campo e un tripudio di piante e fiori attraverso cui proclamare una professione di fede nei confronti della bellezza. 
In una minimostra visitabile fino al 2 settembre, accanto a una selezione di film e documentari, viene inoltre presentato Cherry blossom n.6, grande autoritratto fotografico in grigio e in rosso del 1974, in prestito da una prestigiosa collezione privata barese, con l’introduzione critica della storica dell’arte Lia De Venere. Anche la visione di quest’opera è a suo modo un unicum: viene riproposta al pubblico per la prima volta dopo quarantatre anni, da quel lontano 1974 in cui apparve in mostra alla Galleria Sperone di Roma e fu acquistata da Angelo Baldassarre. Tanto il film quanto la fotografia sono però un accessorio al vero centro d’interesse, la presenza cioè dei due artisti in terra italiana. 
Nel corso dell’introduzione di Rosalba Branà, direttrice del museo, e dei critici Alessandra Mammì e Mario Codognato, che hanno illustrato la storia del film e del suo restauro e i temi che affronta, Gilbert&George – seduti al centro di un piccolo podio con gli occhi rivolti al mare – hanno atteso impeccabili e compassati nei completi grigi d’ordinanza con identiche cravatte il loro turno per prendere la parola. Davvero due sculture viventi segnate dal tempo, senza tuttavia perdere né l’autorevolezza né l’(auto)ironia. «Siamo artisti antiformalisti e anticonformisti – hanno spiegato – la nostra arte non ha a che fare con il colore e le forme, ma è vita e per questo ha un valore universale». E l’intervento si trasforma inevitabilmente in un atto performativo: Gilbert&George si passano il microfono ma la loro è una voce sola e il rimpallo serrato della battuta si fonde in un enunciato plurale, frutto di cinquant’anni di vita privata e creativa insieme. 
«Quando diventiamo artisti – raccontano – abbiamo la visione sorprendente di un’arte viva, vivente», che significa parlare agli spettatori con il loro stesso linguaggio, in una presa di distanza netta dall’atteggiamento dominante dell’arte degli anni Sessanta, fondata sul concetto e sull’ideologia. «Confrontandoci con gli artisti nostri contemporanei che avevano un’idea dell’arte legata all’arte, abbiamo percepito un’idea diversa. Ci siamo messi dal punto di vista del pubblico, oltre le frontiere, oltre le élite, rivolgendoci a tutti i background possibili». È un’idea «della cultura che deve diventare sentimento, modo di sentire». Il racconto di una carriera eccellente viene scandito con precisi rilanci, che esemplificano un cambiamento epocale con l’impassibilità di una cortese conversazione a contorno di una tazza di tè. «La nostra arte è venuta alla luce nelle strade di Londra», tengono a precisare i due gentili signori incravattati. 
Dai grandi disegni dei primi anni Sessanta, «venduti a un prezzo strabiliante», non mancano di puntualizzare con una punta di vanità, al cambio di direzione con le Drinking sculptures. «Volevamo mostrare la vita com’è e abbiamo iniziato a realizzare le nostre foto», spiegano semplicemente, illustrando un percorso di ricerca che esce dalla porta per immergersi nel quotidiano, rappresentando il ricco e il povero, fortune e disillusione, morte e vita, nel tentativo di «creare un modo di essere e di sentire». Ma non c’è solo emozione, «la nostra è arte morale», ammoniscono. «Non ci limitavamo a fare delle belle fotografie, ma volevamo cogliere un significato». E il passaggio dal disegno alla fotografia alle sculture viventi è fluido ma calibrato, necessaria conseguenza di un pensiero logico che non si accontenta di una forma felice. Il corpo degli artisti diventa così protagonista sulla scena e i due miti gentiluomini inglesi si ergono su piedistalli, ballano con movimenti sincopati di robot di latta e si dipingono il viso di vernice metallica. Sono una coppia, G&G, e fanno scandalo nella loro banale normalità, che pone al centro un chewing gum o l’esibizione della propria nudità come Naked shit escrementi svestiti. 
Dualità, duplicità, gemellarità, sdoppiamento, codice binario, accostamento di ossimori o consonanze: il lavoro sulla costruzione di un’identità di coppia è fondativo, è l’atto di immaginarsi Adamo e Adamo in un Eden di giacche abbottonate, come in un celebre ciclo disegnato del 1971. E non è ozioso ricordare che la depenalizzazione del reato di omosessualità nel Regno Unito è soltanto del 1967 e, quindi, che il lavoro di G&G sull’identità duale, sul binomio maschile in tutto omologo e omofilo, inizia – coraggiosamente – quando ancora non era possibile pensarsi come coppia. Sembra quasi inimmaginabile, oggi, questo coraggio, quando anche l’Italia ha legiferato sulle coppie di fatto. Eppure, ancora Gilbert e George tengono a sottolineare che per la loro arte «un altro aspetto importante è la sessualità, sradicare i tabù creati intorno all’idea del sesso», perché «è triste pensare che ci sono persone che al mondo rischiano di essere condannate per quello che noi abbiamo fatto ventiquattro ore fa». 
Ed è forse soprattutto su questo fronte tematico e procedurale del loro lavoro che si dimostra un impegno etico, civile, sociale. «Come le norme possono cambiare? Quando si crea un’opinione – rispondono – cioè creando cultura». Il riferimento sotterraneo, non esplicitato nella conversazione, è alle persecuzioni sessuali tuttora perpetrate in Cecenia o nei paesi arabi più radicalizzati. E l’orizzonte del discorso si schiude, si fa globale. «Quando abbiamo frequentato la scuola d’arte – raccontano – il modello di riferimento era l’artista nato nel continente. L’Europa era la terra degli artisti. Dopo, è diventato imprescindibile essere americano, nato a Brooklyn. Oggi siamo cittadini del mondo e si può essere artisti in qualsiasi parte del mondo. Anche se a noi piace affondare i nostri piedi nel fango di Londra. Non avvertiamo l’esigenza di essere altrove per essere artisti. Ma l’arte non è sfuggita alla globalizzazione e ci sono vari modi di fare arte e di essere artisti. Noi, da parte nostra, ci tappiamo gli occhi e turiamo le orecchie e cerchiamo di fare quello che vogliamo. Il lavoro dell’arte è la vita per noi». (Francesco Paolo Del Re)

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