20 maggio 2017

INDEPENDENTS

 
Parola a Gianluca D'Incà Levis, ideatore di Dolomiti Contemporanee, che da oggi riapre il Forte di Monte Ricco, sui monti bellunesi
di Jack Fisher

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Sulle pagine di Exibart.onpaper 97 abbiamo tracciato la mappa degli spazi indipendenti dell’arte milanesi. Attraverso la nostra rubrica “Marginalia” vi raccontiamo contesti e sviluppi di fenomeni che, più che marginali, raccontano perfettamente quella che è la ricerca, e anche la “resilienza” tutta italiana del fare arte visiva e cultura a titolo “indipendente”: ecco la parola chiave, tanto abusata quanto affascinante per descrivere pratiche, spazi, geografie della costruzione dell’arte di oggi al di fuori, chi più chi meno, da mercati, fiere ed economie globali, ma per riscrivere – talvolta nel vero senso dalla parola – scenari. 
Per questa prima puntata, dedicata a Dolomiti Contemporanee, a fare da ambasciatore è Jack Fisher, penna collettiva che dirige e cura la decima stagione di Sponge ArteContemporanea, spazio indipendente di Pergola (PU) da anni attivo sulla scena italiana. 
Incontriamo una personalità che ama la roccia, vive la montagna e ha un cervo come sodale. È una figura nomade che non usa la punteggiatura, è diretto, studia i non luoghi e fonda e dirige DC (Dolomiti Contemporanee – Laboratorio di arti visive in ambiente). L’occasione per intervistarlo? L’apertura del Forte di Monte Ricco con “Fuocoapaesaggio”, mostra collettiva che inaugura oggi. Ecco come ce la racconta Gianluca D’Incà Levis.
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Gianluca quale è la filosofia che sta alla base di Dolomiti Contemporanee – DC? 
«Direi forse che la filosofia DC sta nel metodo DC dato che, al mondo (e nello spazio), quel che conta non è il che cosa fare, ma il come farlo. Tutti possono cercare di fare una cosa, ognuno può parlare o scrivere di una cosa. Ma, se vogliamo nutrirci bene, e cercar bene, noi guarderemo alcune cose, non tutte. Leggeremo alcune cose, non tutte. L’onnivoro culturale è un tizio tendenzialmente indifferenziato o transigente, che si intrattiene acriticamente, senza scegliere. Non è invece per legiferare in modo insindacabile che si applicano i registri critici: semplicemente, che si cerchi la qualità in vece dell’equivalenza, questo interessa. La mia cultura personale è fondata su pensiero, letteratura, filosofia, scienza, poesia, estetica, ma il gesto di DC è sostanzialmente una tecnica, una prassi empirica che sale, condivisa da decine di collaboratori, centinaia di partners, migliaia di persone (non pubblico: persone). La funzionalità culturale è alla base di questa prassi. Cultura ed arte sono sempre pratiche aperte, sperimentali, rischiose, eversive, funzionali a qualcosa. Utili? Non mi pare. DC entra fisicamente in alcuni siti abbandonati: abbandonati dalla ragione, dallo spirito, dalla tensione degli uomini. Questi luoghi prolassati, hanno perso realtà e funzione, rimanendo, quando va bene, dei muti contenitori di memorie atrofiche (giacché vi è una memoria funzionale, a reazione, ed una dolente, immota, paralizzante, patogena). Questi luoghi vanno dunque trasformati in autentici spazi. Dove per luogo intendo qui mero luogo, ovvero sito deprivato. Mentre per spazio, intendo luogo del senso: luogo riacceso e riarmato del proprio senso, che era intatto, solo sepolto. Come si riprendono i grandi siti paralizzati dentro alla montagna, distante dai flussi di sistema, impervia? Come li si attrezza, perché e come essi giungono a divampare ancora? Giacché, se una cosa non divampa, un fuoco è perduto. Noi vogliamo focalizzare, fare fuoco. Un oggetto, ente, sito di valore, deve agire il proprio potenziale. Altrimenti vi è perdita, putrescenza, mancata corrispondenza tra potenziale e realtà, ed ecco che lì fioriscono le insopportabili estetiche dell’abbandono, le archeologie del tumulo. Ogni spazio performa già di per sé stesso, tanto o poco, eppure ciò non basta. Di fronte a me si staglia uno spazio? Cerco con lui una relazione di senso. Ma questa relazione non appartiene alla sua massa (naturale), né alle sue ombre (psichiche). Tale relazione va istituita. Come? Rompendo il gioco schematico delle reazioni automatiche. Avviando o scatenando processi di esplorazione proiettiva che non siano proiezioni deliberate, ma reali incendi. Nel caso nostro, l’arte non è la tecnica di una tecnica (strumento di rigenerazione, mezzo per altro): è invece il libro primo, il testo che si scrive. È tecnica, in quanto, precisamente grazie ad essa (e alle altre tecniche), si generano finalmente le reazioni di senso che alimentano i processi di ridefinizione dell’identità degli oggetti-enti-siti. L’attenzione e la cura sono premianti, virtuose.  DC è attenzione, insofferenza ed aggressività culturale: nei confronti di ciò che è fermo senza essere attento – una grande forza dinamica sa esser ferma, l’ombra di una massa può predire una distruzione, igienica, necessaria, retta, arrampicata (si sale: la disciplina è quella del brain tooling: un pensare acuminato, in punta di picca, e una forte aderenza, concentrata su di una superficie minima, precisa, d’aggrappo, al ghiaccio e alla roccia), rete (uno in apertura, ma si sale in molti – né sulla cime, né sulle groppe, si-sale-per-salire). Nulla si trova sulla cima, ogni cosa è nella progressione». 
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Non un sito, ma diversi luoghi come Forni di Sopra, il villaggio dell’ENI, la cartiera di VAS, Il rifugio Brigata Alpina Cadore, il Nuovo Spazio di Casso…Alle porte una nuova apertura: Il Forte di Monte Ricco. Come identifichi i luoghi e perché? 
«Secondo un criterio di massima semplicità e chiarezza. Esistono dei siti eccezionali, oggi spenti, a causa di vicissitudini le più diverse. Solo quelli ci interessano. Non si tratta di un generico interesse per i siti dismessi, né per l’archeologia industriale, o per le cosiddette imprese creative. Alcuni siti, e solo alcuni, pur essendo in stallo, rimangono potenti. Il loro potenziale, a differenza di altri, può essere ridestato dato che tali siti e spazi possiedono un valore assoluto, oggettivo e spesso emblematico. Una scuola chiuda da mezzo secolo nell’area terribile del Vajont (9 ottobre 1963), deve diventare un centro di rigenerazione culturale del paesaggio della tragedia, paesaggio inammissibile. L’ex Villaggio Eni di Borca di Cadore, realizzato da Enrico Mattei ed Edoardo Gellner, è un pezzo straordinario della storia delle idee e delle cose, del welfare e del design del paesaggio, oltreché d’Italia: esso deve essere riattivato: è una questione di attenzione e responsabilità. Siamo sempre lì: una questione di curatela, una curatela ampia, che non si limita al contenuto (ciò che si infila in uno spazio pregresso), ma partecipa alla definizione dello stesso, espandendosi nello spazio del paesaggio, ragionandolo attivamente, pensandolo di fatto. I siti di cui ci occupiamo sono unici e peculiari. Sono Patrimonio, bene, risorsa. Sono importanti, come lo è l’azione che li ripensa operativamente, ben guardandosi dal porli in vitro. Ma lo spazio espanso in cui tali spazi sono immersi, è sempre il Paesaggio. Se c’è una cosa più importante dei singoli siti dunque, è il rapporto tra questi siti e le prassi che vi si ingenerano, è la distanza-vicinanza tra essi, è la somma –o la differenza- della pulsazioni spaziali nel paesaggio, attraverso le quali si viene a comporre una geografia della rigenerazione culturale, che non ha nulla a che vedere con la monumentalizzazione celebrativa dei siti stessi. Grazie alle Residenze e alle logistiche d’accoglienza, i siti diventano discontinuità connettive nel/del paesaggio, attivatori, centri della ricerca e della produzione culturale integrata, cantieri e fabbriche, riprocessatori e collettori, spazi dell’incontro e dello scambio, fulcri entro cui si stabiliscono relazioni e reti vaste. I luoghi dunque, ovvero i siti, non significano solamente sé stessi: essi sono epicentri interconnessi, grazie ai quali è possibile lanciare archi ardenti tutt’attorno al paesaggio, incendiandolo, finalmente. Oggi DC ne riattiverà un altro: il Forte di Monte Ricco a Pieve di Cadore. Questa eccezionale architettura salvata, riapre dopo un secolo, grazie a Fondazione Cariverona. Comune ed enti gestori hanno scelto di rilanciarlo con noi: ancora una volta, il contemporaneo fa sul serio. entra nel territorio, iniettandovi l’ennesima dose di pragmatica determinazione poietica». 
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Quanto la natura influenza la creazione dell’opera d’arte?
«Quello di natura è un concetto complesso, per rispondere sinteticamente tocca semplificare e scegliere una prospettiva. Considererei quindi i concetti di natura e cultura nell’accezione oppositiva secondo cui (come in Aristotele), le cose naturali sono già date, e si manifestano automaticamente, realizzando il proprio principio immanente, per (o senza) un fine ultimo, rimanendo indifferenti ai valori. Mentre la cultura va fatta, deliberatamente, dall’uomo, che pure, facendola asseconda, com’è ovvio, elementi della natura propria.  Ma essa cultura non è già data, e dipende da consapevolezza e attitudine critica e volontà e visione. In generale, quando si viene nelle Dolomiti (come quando si entra in un sito eccezionale, come quello di Borca), si subisce shock estetico, in virtù della formidabile capacità di stimolazione di ambiente e contesti. Lo spirito e la mente si infiammano, nella ricerca di un rapporto. Naturalmente, questo genere di reazione non avviene solo alla montagna. Essa può avvenire ovunque vi sia inclinazione al thauma, capacità appercettiva, slancio. Ma questa simpatia (che per gli stoici regola il cosmo), viene implementata da questo contesto integrato, che mescola natura e artifizio, non permettendo a nessuno dei due di riposare, isolato, inviolato. Le opere realizzate dagli artisti in DC non sono mai “omaggi alla natura”, l’approccio contemplativo non interessa, qui ci sono cantieri, non prati, e c’è una volontà di bruciare il bosco. 
La natura della montagna, e la natura dei grandi siti da rigenerare, sono ben diverse, e si scontrano, come due grandi pieni vuoti. In mezzo, c’è l’artista. Se non rimane schiacciato da queste grandi masse pesanti (covando uno stereotipo), il suo lavoro potrà risultare molto carico.  Spesso, direi quasi sempre, i lavori sorti in DC hanno una connotazione fortemente sperimentale. Ciò in virtù della disponibilità dei grandi spazi anomali entro cui è possibile lavorare, spazi a loro volta gettati tra i boschi ed i picchi. Ed in virtù della nostra mentalità, che rifiuta l’arte quale pratica decorativa, intendendola come morso o testata». 
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Chiudi tu questa intervista con il tuo consueto saluto
«Credo che sia molto difficile dar conto dell’esperienza complessa in cui consiste DC. L’unico modo per capire, è venire a vedere di persona. Tutti sono invitati. Noi siamo qui ad accoglierli. Credo che da noi si possa trovare molto, o tutto, oppure poco, o niente. Dipende dall’attitudine, e dall’approccio. Chi trova qualcosa, farà qualcosa. Chi non trova nulla, tornerà a valle. Noi, continueremo a salire queste pareti. Della montagna, del cervello». 
www.dolomiticontemporanee.net – www.twocalls.net – www.progettoborca.net 
Jack Fisher

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