14 aprile 2017

Amabili resti?

 
Arte e sistema contemporaneo, tra economie varie e impossibilità di riscatto per i "soggetti deboli". Note a margine di un casting dalle mille insidie, non solo teoriche

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Sappiamo ormai che nel sistema artistico e culturale contemporaneo – con tutte le retoriche e i processi di mediatizzazione che lo accompagnano e che favoriscono nei “pubblici” una condizione di ignoranza che possa dissimulare il proprio sfruttamento – non si può più credere a una presunta “esteriorità” economica dell’arte al regime produttivo capitalistico: l’opera non è un’idealità astratta o metafisica, ma è calata dentro un preciso rapporto sociale, quello del capitale. Così nelle industrie creative sovrabbondano pratiche dirette a far apparire la gestione della ricchezza un’offerta culturale e il sistema dell’arte si configura, sempre di più, uno dei principali agenti di “naturalizzazione” di quella stessa ricchezza e di legittimazione delle disuguaglianze sociali. L’arte non può essere ridotta a un paradigma estetico neo-romantico, perché invece assegna ruoli e funzioni, controlla e distribuisce condotte, gestisce risorse economiche e istituzioni, confeziona pubblici obbedienti e addomesticati. Con grande abilità – rispetto al regime di visibilità con cui si presenta e sceglie cosa mostrare e cosa nascondere – il sistema dell’arte nasconde tutto quello che non è conveniente mostrare, ossia le tracce della sua produzione: budget, alleanze politiche, economiche e finanziarie. Ma dalle anticipazioni che ci giungono sulla prossima mostra “La Terra inquieta”, curata da Massimiliano Gioni e organizzata in collaborazione con la Fondazione Trussardi che aprirà alla Triennale di Milano dal 28 aprile al 20 agosto, al contrario tutto viene esibito e dichiarato: ed è talmente evidente che nessuno lo vede.
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Dalle pagine de La Lettura del Corriere della Sera, un lungo articolo di Stefano Bucci ha introdotto la scottante questione: i migranti e i richiedenti asilo a Milano sono stati convocati nel piazzale antistante la Stazione Centrale e selezionati per un casting fotografico: gli scatti saranno inviati in Cina perché il pittore Liu Xiaodong (classe 1963, tra i maggiori esponenti della nuova generazione neorealista cinese, attualmente in mostra alla galleria Massimo De Carlo) ne realizzi una versione contemporanea del Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo. Nelle due pagine di articolo si susseguono una serie di sconcertanti specifiche: le selezioni per il Quarto Stato di Liu Xiaodong sono assolutamente gratuite e si sono presentati una quarantina di migranti provenienti, tra gli altri Paesi, dall’Africa, dall’Ucraina, dalla Siria, ospitati nei centri di accoglienza di Milano; ora Liu Xiaodong nel suo studio di Pechino è già al lavoro sulla sua versione del Quarto Stato; la mediazione culturale ed economica è stata svolta dalla Fondazione Trussardi che ha attivato i contatti con la cooperativa “Farsi prossimo” uno dei centri di seconda accoglienza inserito nella rete dello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati; il supporto della galleria di Massimo De Carlo (che può sempre contare su un’ampia rappresentanza dei suoi artisti nelle mostre organizzate da Gioni); infine, last but not least, le quotazioni milionarie di Lio Xiaodong: “Nel 2014 una sua grande tela di 160 x 200 centimetri del 1997 è stata venduta da Christie’s per 9 milioni e 520mila dollari”, riporta Bucci. Eccola la principale condizione del valore d’esposizione nell’economia capitalista: occultare  il segreto della merce esponendolo alla vista! 
Quale peggiore rappresentazione della condizione tragica e precaria delle esperienze migratorie e transculturali? L’ordine del discorso emergenziale sulla crisi dei rifugiati, dei richiedenti asilo, di coloro che scappano dalle zone di guerra, in una narrazione istituzionale che oscilla tra l’accoglienza umanitaria e il filo spinato, continua drammaticamente a dominare l’attuale congiuntura politica ed economica europea. L’operazione che “La Terra Inquieta” sembra preannunciare già da questo primo intervento (ospitato generosamente tra le pagine del Corriere della Sera) credo sia molto più pericolosa della retorica populista e identitaria che esprime la paura e il rifiuto degli stranieri: perché è una deriva fascista.
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Per una cosa ha ragione Liu Xiaodong: è «il più grande manifesto del proletariato italiano tra Otto e Novecento». Il Quarto Stato, dipinto nel 1901 da Pellizza da Volpedo, tre anni dopo i moti proletari repressi nel sangue, acquistato nel 1920 attraverso una sottoscrizione pubblica dal comune di Milano, fu collocato nel Castello Sforzesco dove rimase fino agli anni ’30 quando il regime fascista lo nascose in un deposito. “Il Quarto Stato – scriveva l’artista nel 1903 – poté essere quale io lo volli; un quadro sociale rappresentante il fatto più saliente dell’epoca nostra: l’avanzarsi fatale dei lavoratori”, di un corteo che procede a ranghi serrati marciando compatto verso l’osservatore. Forse si tratta di uno sciopero o di un semplice incedere verso un futuro carico di conflitti sociali ma il dipinto è subito diventato un potente simbolo della lotta di classe e dell’esodo dal lavoro salariato. I personaggi ritratti forse Pellizza li aveva incontrati realmente lavorando nella Società agricolo-operaia di mutuo soccorso di Volpedo: contadini e braccianti costretti a emigrare in città e a diventare presto la nuova classe operaia. L’artista era vicino alle nuove teorie socialiste e riprende il titolo dalla Histoire socialiste de la République française 1789-1900 di Jean Jaurès come contrapposizione ai tre “Stati” esistenti nella società di ordini della Francia pre-rivoluzionaria, clero, nobiltà e borghesia. 
L’idea della lotta anima la grande tela nel processo di emancipazione verso una causa comune: la conquista dei propri diritti. “Che cos’è una vittoria operaia? – si chiedeva più o meno negli stessi anni Elizabeth Gurley Flynn – Ritengo che significhi due cose insieme. I lavoratori devono conseguire risultati economici, ma devono anche conquistarsi uno spirito rivoluzionario, al fine di raggiungere una completa vittoria. 
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Invece i migranti sono stati selezionati da Liu Xiaodong secondo un format proprio della fiction: il casting. E sono chiamati ad assumere una posa, in questo re-enactment (solo iconografico e superficiale) del Quarto Stato, con l’assegnazione di un ruolo e di un’immagine, d’altronde cos’è (debordianamente) l’essenza dello spettacolo se non l’esteriorità, cioè l’espropriazione di se stesso? Perché non consentire loro di formare un Quarto Stato? Perché togliergli ogni diritto all’auto-rappresentazione? Ogni diritto di empowerment. Come diceva John Friedmann “il potere politico non è soltanto il potere di voto; è insieme il potere di protesta e di azione collettiva”. 
L’analisi dei processi migratori – ha analizzato lucidamente Sandro Mezzadra nei suoi numerosi testi al riguardo – non può prescindere dai fattori soggettivi che li connotano, a cominciare dal carattere sistemico dei flussi migratori e dagli squilibri nella distribuzione delle ricchezze tra nord e sud del mondo: “Occorre mettere al centro della nostra attenzione la soggettività di quelle donne e quegli uomini che esercitano quel diritto di fuga […]. Sotto il profilo teorico, tuttavia, è necessario  notare che quell’immagine (dell’immigrato come soggetto debole o vittima) ben si presta a riprodurre logiche paternalistiche, a iterare un ordine discorsivo e un complesso  di pratiche che relegano i migranti in una posizione subalterna,  negando loro ogni “chance” di soggettivazione”, scrive Mezzadra.
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Ma alla discutibile operazione di Liu Xiaodong si aggiunge un fattore di altrettanta pericolosità: il “governo dei pubblici” del fascismo finanziario contemporaneo che ha interamente colonizzato il sistema dell’arte. Che tipo di controllo possono esercitare gli artisti (gli intellettuali, i curatori o i pubblici) sulle macchine espositive contemporanee? Come manifestare lo sdegno per lo sfruttamento dei migranti e della loro immagine perpetrato attraverso il potere economico gestito da gallerie e fondazioni che ormai sono oligarchie finanziarie internazionali? Quanto costerà ai collezionisti il Quarto Stato su commissione? O ancora, come leggere le sponsorizzazioni ad eventi culturali mondiali di soggetti ben poco etici? 
Marco Scotini nel suo ultimo libro Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici (DeriveApprodi, 2017) coglie il punto nevralgico della questione: siamo sottoposti a una mistificazione ideologica dei nuovi rapporti di subordinazione tra governanti e governati, tale da rendere ormai irriconoscibile lo sfruttamento. “Sempre più si cerca di far apparire la ricchezza di una parte limitata della società – continua Scotini – come assolutamente naturale. L’arte diventa una sorta di privilegio in grado di fornire un senso di diritto acquisito, qualcosa che nessuno osa mettere in discussione. Ma il pubblico dell’arte che fa? Sta passivamente a guardare?” Qui c’è la risposta a una nuova critica istituzionale che muova dalla consapevolezza e dalla capacità di rottura e di rovesciamento dei rapporti di potere e dei “dispositivi semiotici del nostro sfruttamento e del nostro controllo”.
Le esposizioni e programmi pubblici (dentro il mondo dell’arte) potrebbero essere paragonate, secondo Vasif Kortun (nella sua lecture “Art Institutions in the age of post-publicness” tenuta lo scorso maggio da FM Centro per l’Arte Contemporanea a Milano) “Ai resti di un sontuoso banchetto, il pubblico felicemente si accontenta di quello che non ha mai visto prima, abbuffandosi degli avanzi. Ma gli ospiti principali hanno già lasciato il tavolo e si trovano ad un altro party, da qualche altra parte”. Nutriamoci pure di tutti questi resti, basta solo essere consapevoli, che sono degli avanzi.
Elvira Vannini

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