23 novembre 2016

Cambiare le cose

 
A Parigi, in occasione di OFFprint, un segnalibro delle edizioni Jean Boite recitava: "Love art, hate the art world". E ora, una trentina di personaggi che invece all'art world ci appartengono eccome, danno i loro suggerimenti per un cambiamento. Ma che davvero?

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Sarà colpa dell’incertezza economica, politica, sociale. Sarà che cercare di cambiare il mondo – anche se basterebbe solo un po’ volerlo migliorare – non è mai passato di moda. Sarà chi chi è dentro il sistema vuole “combatterlo”, mentre chi è fuori è fuori e basta, fatto sta che Artnet ci regala un’altra perla popolare, e raccoglie pareri su come – appunto – rendere il mondo dell’arte un posto migliore. 
Voi che ne direste? Vi diamo qualche esempio: Cecilia Alemani, curatrice del prossimo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia dice che bisognerebbe operare una riduzione del potere del mercato. 
C’è chi punta il dito, invece, contro l’emarginazione di chi non appartiene a “comunità” ristrette, ovvero artisti di colore, artiste donne, come la producer Donna Marie Baptiste, e chi invece punta il dito sulla concentrazione: non si può essere tutti a New York o a Los Angeles, ma c’è bisogno di una maggiore diversità, dicono dalla Bruce High Quality Foundation. Poi, nell’ordine, la gratuità dei musei – come accade al Museum of Contemporary Arts di Houston o alla Menil Collection, effetto che provoca l’avvicinamento di comunità.
C’è chi invece la punta sulla teoria e la dialettica dell’arte, come l’artista Dexter Dalwood, che dice basta alle “parolacce” che accompagnano le mostre: “post-verità”, “post-storia”, “temporalità”: viva il linguaggio chiaro e corretto, che aiuterebbe anche gli addetti ai lavori. 
C’è chi vorrebbe insegnare alla scuola dell’obbligo le azioni Fluxus, chi vuole che il mondo dell’arte si assuma più responsabilità rispetto a quel che accade nel mondo, e c’è chi – come Jerry Saltz – la butta sul politico-attuale: boicottare le attività della Mnuchin Gallery finché Steven Mnuchin sarà pro-Trump. 
Ma a latere di battute e idee più o meno inattuabili o forse utopiche (anche se l’arte, in fondo, cos’è sempre stata se non un tentativo, uno sfondamento del confine, della percezione, e dunque una sorta di rivelazione di qualunque natura essa sia?) ci colpiscono due affermazioni: la prima è di Benjamin Genocchio, direttore dell’Armory Show: “Un modo per rendere il mondo dell’arte un posto migliore è quello di aumentare sostanzialmente il salario ai curatori e al resto del personale nei musei, in modo che possano sostenere il costo della vita nei grandi centri metropolitani. Senza salari che permettano di vivere i musei non saranno più in grado di attrarre i talenti migliori e brillanti”; la seconda è del direttore della galleria brasiliana Acquavella, Michael Findlay: “Suggerisco a tutti i visitatori, includendo collezionisti, dealer, art advisor, così come al pubblico di appassionati, di spendere il tempo che usano per scattare fotografie, inviare messaggi e fare telefonate durante le loro permanenza in musei, gallerie o fiere, a guardare le opere”. Al di là del sostegno ad artisti equi e solidali, riduzioni fiscali, droit de suit e chi più ne ha più ne metta. Anche qui forse c’è da ripartire dal basso? (MB)

1 commento

  1. Oh! Il re è nudo.
    Comunque biasimevole unirsi al coro della maggioranza invisibile solo quando il mercato tradisce anche loro.
    Accoliti fedeli cominciano a sviluppare sensi oltre la propriocezione.

    Il punto non è come salire sul carrozzone, ma come distruggerlo.

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