12 ottobre 2016

Nella mente del curatore

 
Apre oggi “Altri tempi, altri miti” la 16esima Quadriennale di Roma. Assente dalla scena da otto anni, ha il compito non facile di rappresentare qual è e dove va l'arte italiana

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Cosa significa fare una Quadriennale oggi? Probabilmente avere la possibilità di espandere lo sguardo, tanto quanto sono espanse le pratiche dell’arte nel nostro Paese. Abbiamo incontrato i curatori, e ognuno ha detto la sua alle medesime domande. Ecco il ritratto, la costellazione e la coralità del lavoro dell’arte di un Paese, dopo il 2000
1 – Riassumendolo in poche parole, qual è  il tratto caratterizzante, il senso della tua Quadriennale?

2 – Essendo l’unica produzione “Made in Italy” dell’arte contemporanea in Italia, è una manifestazione il cui lato politico non può passare inosservato. Che cosa significa questo per te e come ti impegna?

3 – Cosa deve cambiare nel nostro Paese per rendere l’arte un sistema degno a quello di molti nostri vicini?
Marta Papini. 1- «È un esercizio di attenzione: da un lato, il pubblico è in rapporto uno a uno con le singole opere, che si alternano nello spazio senza essere mai fruibili in una visione unitaria. Dall’altro, un public programme, pensato come parte integrante del progetto, rende possibile approfondire la complessità della ricerca di ogni artista in mostra».
2 – «Non credo che sia l’unica: anche il Padiglione Italia può diventarlo a pieno titolo. Di sicuro in questa edizione c’è una volontà politica di rinnovamento, ed è un invito che accolgo di buon grado, cercando di offrire una risposta adeguata a questo percorso di cambiamento. Ma non può e non deve essere l’unica iniziativa in questo senso: servono strategie di più ampio respiro, il pubblico non si costruisce in un giorno».
3 – «Se ne è discusso molto al Forum di Prato l’anno scorso, che ho contribuito a ideare: credo che sarebbe utile un’agenzia per il contemporaneo che coordini e supporti la diffusione dell’arte italiana sulla base di un indirizzo chiaro e con mezzi finanziari commisurati. Non basta, va aumentata la storia dell’arte nelle scuole: la familiarità con l’arte è basilare per la creazione di un pubblico curioso e appassionato».
Sezione curata da Matteo Lucchetti, De Rerum Rurale
Denis Viva. 1 – «Più che di un “senso”, che è sempre collettivo, negoziato, che arriva a posteriori, oggi posso parlare di una “sensazione”, quella di una generazione, di artisti e di curatori, che riaffiora da un decennio in cui molti accadimenti interessanti si sono svolti nel sottosuolo, senza clamori. E che con altrettanta discrezione prende ora consapevolezza di sé». 
2 – «Le origini storiche della Quadriennale oggi non sono più, né devono essere un’eredità ingombrante. “Altri tempi, altri miti” è per molti aspetti un laboratorio inedito e nella sua apertura risiede il suo valore politico più spiccato: nessuna delle più urgenti questioni globali, cognitive, mediali, artistiche sembra essere rimasta inascoltata in questa vasta convivenza di progetti».
3 – «Se si vuole adottare uno sguardo “sistemico”, allora si ha gioco facile nel riconoscere come “italiani” alcuni deficit come, ad esempio, la difficoltosa professionalizzazione di chi opera, a qualsiasi titolo, in questo settore. Tuttavia, queste carenze sono spesso l’accentuazione di più vaste tendenze globali; su tutte, la dilagante idea della “visibilità” come mezzo di scambio tra artista ed altri mediatori (gallerie, mostre, riviste, etc.). Una sorta di continuo differimento che promette riconoscibilità mentre procrastina l’autosufficienza di ciascuno». 
Sezione curata da Michele D’Aurizio, Ehi, voi!
Michele D’Aurizio. 1 – «La mia sezione esplora il linguaggio del ritratto. Ho invitato circa venti artisti a ritrarsi e/o a ritrarre i membri della propria comunità. La mostra sarà quindi un paesaggio di volti e corpi che inviterà lo spettatore a condividere con gli artisti le narrazioni del fare arte, del vivere facendo arte, del “sopravvivere” facendo arte». 
2- «Il tema sotteso alla mia sezione è quello della comunità. In una società, come quella attuale, segnata da innumerevoli idiosincrasie, differenze e ossimori, e della polarizzazione che ne risulta, dimostrare che l’arte può nascere da un “sentire comune” è un invito a progettare una società migliore».
3 – «Il sistema dell’arte italiano funziona e funziona bene. Dobbiamo certamente migliorare la comunicazione, e successivamente inspessire il discorso critico – obiettivo che comporta abbandonare una volta per tutte la leggenda metropolitana che l’arte italiana è di scarsa qualità».
Luigi Fassi. 1 – «È una preziosa opportunità di lavoro con gli artisti italiani e due storiche istituzioni nazionali, la Fondazione Quadriennale e il Palazzo delle Esposizioni di Roma. La necessità di pensare a una mostra collettiva ha stimolato una grande collaborazione con gli artisti, una forma di scrittura condivisa del progetto a partire dalle urgenze di ciascuno di loro». 
2 – «Credo sia fondamentale prendere in considerazione la storia della Quadriennale e il suo rapporto con il Paese, dalla prime edizioni degli anni Trenta sotto il fascismo sino a quelle del dopoguerra, in un’Italia divenuta repubblica democratica. Nel bene e nel male, la Quadriennale ha sempre interpretato e specchiato la storia italiana e tutti i dieci progetti di quest’anno parlano in termini franchi e diretti dell’Italia e del suo presente». 
3 – «Credo sia necessario un maggiore impegno di collezionisti ed enti privati nella varie città italiane, per esaltare positivamente il campanilismo nazionale ispirandosi al modello dei Kunstverein tedeschi, diffusi su tutto il Paese e frutto dell’associazionismo virtuoso e non competitivo di collezionisti, imprenditori e appassionati».
Sezione curata da Luca Lo Pinto
Luca Lo Pinto. 1 – «”Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” è una mostra che ragiona sullo sguardo, sull’interpretazione, sul trauma dell’opera d’arte, sulla parzialità della storia, sulla memoria individuale e collettiva, su come guardiamo alle cose e come le cose guardano a noi in un rapporto dialogico. È stata concepita relazionandosi alle opere quali oggetti che, seppur inanimati, possiedono un’anima, una memoria come quella di chi li ha prodotti. L’ho immaginata come una stanza di un immaginario museo archeologico del presente, animata da reperti da esplorare in un continuo processo di associazioni e dissociazioni – frammenti di un mondo a noi distante, difficile da ricondurre a un tempo preciso. Uno scenario articolato attraverso immagini, suoni, oggetti, sculture che parlano una lingua labirintica, allegorica, metaforica dentro il nostro presente e che evocano i segni di un trauma che la storia porta con se». 
2- «Non capisco il senso della domanda. Il lato politico in cosa consisterebbe? Nell’essere solo una mostra di artisti italiani?»
3 – «Investire sulla ricerca e sull’educazione. Rinforzare la nostra cultura civica. Pianificare a lungo termine. Snellire la burocrazia. “Reinventare” spazi preesistenti piuttosto che produrre architetture destinate a morire sul nascere. Provvedere a un’autonomia gestionale non vincolata alla politica. Attivare una sinergia intelligente tra pubblico e privato. Avere molta immaginazione».
Sezione curata da Simone Frangi, Orestiade italiana
Matteo Lucchetti. 1 – «Dedicare una mostra di queste dimensioni all’arte italiana ha il senso di affermare la molteplicità di scene, ricerche e dialoghi che vedono protagonisti gli artisti italiani, riconoscendone la diaspora e la relazione con altrettante scene estere alle quali spesso appartengono. La mia Quadriennale parla di pratiche artistiche socialmente impegnate, di progetti a lungo termine, di urgenze ambientali, politiche e in generale è una riflessione sull’uso degli spazi, da quello agricolo a quello di internet, per perseguire un interesse comune, che sta a metà e al di là delle classiche categorie di pubblico e privato». 
2 – «Ogni mostra ha un lato politico che non può e non deve passare inosservato». 
3 – «Vivo all’estero da sette anni e nessun sistema nazionale può far da modello per gli altri. Mi auguro fortemente però che anche in Italia il lavoro dell’artista e del curatore vengano rispettati in quanto tali e si chiudano certi circoli di privilegio che rendono di fatto queste carriere precluse a molti. Se non fossi andato all’estero forse questo non sarebbe diventato il mestiere con il quale mi mantengo». 
Sezione curata da Domenico Quaranta, Cyphoria
Domenico Quaranta. 1 – «”Cyphoria” è una mostra che intende rendere giustizia a un lavoro condotto “sottotraccia” da molti artisti italiani nel corso degli ultimi vent’anni, e poco presentato dalle gallerie e dai musei del nostro Paese. Viviamo in un’epoca intrisa di mediazione, che si è intrufolata in ogni aspetto della vita, dell’esperienza, dell’immaginazione e del racconto. La politica, l’economia, il lavoro, le forme della comunicazione e della socialità, ma anche l’intimità e il sogno sono stati stravolti dall’impatto dei media digitali, e questioni come la privacy, la sorveglianza, la capitalizzazione della vita sociale definiscono una parte importante di ciò che chiamiamo presente. L’arte italiana più in vista, tuttavia, sembra spesso inerte a tali questioni, e quella che le indaga sembra soffrire della mancanza di un adeguato sistema di promozione. La risposta, per molti artisti in mostra, è spesso l’estero, come luogo di studio e di lavoro ma anche di vita. “Cyphoria” propone un estratto di una scena italiana tanto attiva e vivace quanto dispersa e generalmente poco visibile». 
2 – «Ho affrontato questo compito con un senso di responsabilità nei confronti delle pratiche che ho sostenuto e dei discorsi che ho sviluppato nel corso degli anni, senza concedermi il lusso di divagazioni più libere, cercando di donare alla Quadriennale ciò che, senza presunzioni, in quella selezione solo io avrei potuto dargli. Spero di esserci riuscito». 
3 – «Molto semplicemente, l’arte deve diventare un sistema, e non un insieme confuso di sforzi individuali e di investimenti occasionali. Questo può voler dire molte cose, ma un discorso mi preme in particolare. Ci sono intere aree della produzione artistica, che si fondano più sulla ricerca che sulla creazione di artefatti market-friendly, che per svilupparsi e crescere non hanno bisogno di una economia di mercato, ma di un’economia dell’esperienza, che si regge su finanziamenti pubblici e privati e sull’apertura di centri dedicati, festival e premi. In Italia questa dimensione è quasi completamente assente».
Sezione curata da Cristiana Perrella, La seconda volta
Cristiana Perrella. 1 – «Prima di tutto quello di dare spazio alle opere e agli artisti. Per questo ne ho scelti solo cinque, con lavori in gran parte realizzati per l’occasione. Li lega la comune attenzione per l’uso di materiali densi di storie già vissute, di cui danno nuova lettura riattivandoli attraverso pratiche legate a una manualità spesso di tipo artigianale. Una sorta di “strategia del riciclo” che l’arte conosce a partire dal primo Novecento ma che qui si può legare a recenti modelli socioeconomici che ripensano il ciclo del consumo e ad una rinnovata riflessione sui temi del postmoderno».
2 – «L’impegno è lo stesso in ogni progetto che curo. Della Quadriennale mi interessa la possibilità di parlare ad un pubblico ampio e rappresentare una mia idea di arte italiana».
3 – «Attuare politiche culturali a lungo termine basate sulla qualità, autonomia e durata dei progetti e che riguardino tutte le componenti del sistema, comprese le gallerie».
Simone Ciglia e Luigia Lonardelli. 1 – «Rispondiamo a questa domanda con un’immagine».
2 – «Il “made in” è un concetto che non sentiamo vicino a questa Quadriennale. “Concepito in”, “influenzato da”, sono invece espressioni di una postura differente che, nella sua minimalità, può diventare politica».
3 – «Il sistema italiano sconta il fatto di non essere un sistema, ma una costellazione di iniziative singole. Insieme al coordinamento fra i vari attori, sarebbe necessaria una maggiore attenzione per il contemporaneo a livello educativo».  
Sezione curata da Simone Ciglia e Luigia Lonardelli in I would prefernot to/Preferirei di no
Simone Frangi. 1 – «La sezione “Orestiade italiana” raduna una serie di ricerche artistiche recenti che si pongono in maniera critica di fronte alle anomalie sistemiche del contesto italiano, analizzandolo nel suo versante culturale, economico e politico e nei suoi processi di determinazione identitaria. La sezione parte da Appunti per un’Orestiade Africana (1970) di Pier Paolo Pasolini di cui assume la forma abbozzata, gli snodi teorici e l’ambiguità del punto di vista, cercando di rendere produttive quelle forme ambivalenti di “orientalismo eretico” che Pasolini avanza in maniera esacerbata nella sua ricerca in Africa per analizzare alcune emergenze ancora controverse dell’attualità italiana e europea». 
2 – «Il progetto si pone l’obiettivo di ripensare la retorica dell’identità nazionale adottando un punto di vista deliberatamente claustrofobico verso inedite forme di cittadinanza globale che, come preconizzava Seyla Benhabib, potrebbero annunciarsi flessibili e non universaliste. L’Italia diventa in questo senso una zona speculativa per indagare le concatenazioni che regolano i nazionalismi europei e le compromettenti coalizioni di multiculturalismi strategici che non fanno altro che replicare l’universalismo occidentale e relegare “ciò che Europa non è” nel relativismo molteplice delle particolarità. Qui la pratica artistica ipotizza un “indebolimento critico” della presunta identità culturale italiana attraverso un confronto serrato con ciò che essa ha programmaticamente escluso e posizionato come altro da sé».
3- «Credo che quello che all’Italia manca è proprio una lucida coscienza di sé e delle proprie specificità, sia storiche che contemporanee. Siamo sempre presi nel desiderio di volerci adeguare ad un presunto standard internazionale – proprio come dici tu, evocando il confronto con i paesi confinanti e l’idea di dignità – quando sarebbe forse opportuno allentare questa tensione verso modelli che funzionano altrove perché coerenti con i territori in cui nascono, e svilupparne di intelligenti e innovativi per il contesto in cui operiamo, cercando di conoscerlo e interpretarlo».
Matteo Bergamini

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