17 settembre 2016

I GIOVANISSIMI SIXTIES

 
Cultura di massa e storia. La Pop Art de noantri trionfa. La mostra appena inaugurata alla Fondazione Magnani Rocca rilegge gli anni del boom con la lente dell’arte

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Quasi quaranta artisti invadono la Villa di Luigi Magnani, raffinato collezionista del ‘900, nella nuova mostra ospitata alla Fondazione Magnani Rocca, altresì detta Villa dei Capolavori, poiché il suo fondatore ha dato origine a una delle collezioni private più raffinate dell’Emilia Romagna. Le opere di questa esposizione appena inaugurata e significativamente intitolata “Italia Pop. L’arte negli ani del boom”(fino all’11 dicembre), sono sparse per tutti i piani dell’edificio, si mettono in dialogo con gli squisiti arredi della Fondazione, invadendo le stanze e imponendo i loro colori accesi e materiali atipici come il metacrilato negli animali colorati di Marotta o negli oggetti come la scarpa di Franco Angeli firmata da Piero Manzoni. Un’invasione allegra, scanzonata, giovane come l’immagine degli anni ’60, il cuore temporale dell’esibizione curata da Walter Guadagnini e Stefano Roffi, che viene introdotta sulle note di “Sono bugiarda” di “Casco d’oro” Caterina Caselli. La mostra è, infatti, anticipata da un video di Kreativehouse con la collaborazione di Giordano Bovi, che racconta il ballo, l’arte di Rotella e di Schifano, tramite estratti del suo film sperimentale Umano non umano, il divertimento ma anche la noia degli anni che i giovani li ha “inventati”. 
Giosetta Fioroni, Da Botticelli, 1965, colore alluminio su tela

Protagonista indiscusso di tutte le sei sezioni delle mostra è Mario Schifano che, nella sala principale, domina con una gigantesca versione di Futurismo rivisitato, uno smalto e spray su tela e perspex del 1965, che omaggia i cinque fondatori del movimento futurista, Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni, Severini, resi icone senza tempo. Sempre dal passato emergono ben radicati nell’immaginario comune degli italiani e dei protagonisti della scuola di Piazza del Popolo i corpi scultorei di Michelangelo amati da Tano Festa, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello reinterpretata da Roberto Barni, i soggetti botticelliani amati da Giosetta Fioroni e la lupa capitolina di Franco Angeli, che cromaticamente ben si accosta alla sottostante consolle in marmo nero di Piranesi della collezione Magnani. È questa la sezione “Michelangelo pop” che illustra come l’arte del passato sia stata una delle fonti di ispirazione più prolifiche per la Pop Art italiana, distinguendola da quella americana e orientando parzialmente la ricerca verso la storia piuttosto che al consumismo e alla quotidianità.  
Ma è la vita moderna, di tutti i giorni con i suoi oggetti e i suoi alimenti, che si impone da protagonista e che si riconosce nelle opere della sezione centrale dell’esposizione con lavori degli anni ’60 – ’65, dove si celebra l’estetica della cultura di massa. Nella scelta dei soggetti è evidente come la pubblicità e il suo linguaggio siano al centro delle indagini stilistiche dei protagonisti della scena artistica romana. L’oggetto – mito per gli italiani è senza dubbio l’automobile al centro delle tele di Di Bello, Adami e Barni, e il locale – palcoscenico dove questa rivoluzione si attua – è il Piper, storico locale delle nuove generazioni, i cui progetti di Claudio Cintoli sono qui esposti. 

Tano Festa: Particolare delle Tombe Medicee, 1965. Collezione privata

La serialità degli anni del boom affascina Piero Manzoni, un vero e proprio caso limite, ma non solo lui rimane affascinato dall’introduzione di oggetti comuni in contesto artistico, anche Rotella con la lacerazione dei manifesti cinematografici e Mario Ceroli con i suoi profili in legno subiscono la medesima influenza. L’oggetto chiave del periodo è il televisore, qui presente con Intervallo di Gianni Ruffi, coloratissima tv assemblata nel 1965, anno in cui quasi la metà delle famiglie italiane possiede un televisore nella propria abitazione. 
Una piccola sezione è dedicata alla categoria del libro d’artista, visto dai vari artisti pop come terreno di confronto per le teorie di ricerca espressiva. Qui sono esposti molti lavori di Enrico Baj, in assoluto l’autore più prolifico tra monografie, libri d’artista e pubblicazioni per l’infanzia.
Gianni Ruffi, Intervallo, 1965, legno, ferro, vinilici, foto di Aurelio Amendola

L’esposizione dimostra come questo sia un periodo assai roseo per la Pop Art, un fenomeno globale, che oltre America ed Europa, ha conquistato anche Asia, Medio Oriente e America Latina. Le mostre in giro per il mondo, da “The World goes Pop” alla Tate Modern di Londra, alla “International Pop” al Walker Art Center di Minneapolis ora al Philadelphia Museum of Art fino a “Imagine” alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, dimostrano come gli anni ’60 non significhino solo “Campbell’s soup” o la scritta “Whaam!”, ma anche ostilità contro il dominio economico e satira politica, aspetti meno inglobati nella commercializzazione di simboli artistici ormai noti.
Antonio Fomez, Invito al consumo, 1964-65
Da notare poi che dallo scorso anno si è rilevato un aumentato interesse per la scuola pop romana, per i nostri Schifano, Festa e Rotella, per citare i tre record più recenti, restituendo un’immagine della Pop Art più internazionale, non solo inglese o americana. 
È impossibile non riconoscere se stessi e le proprie abitudini quotidiane in questi manufatti che rappresentano su tela o su di un piedistallo la consistenza, a volte meramente consumistica e banale, della vita di tutti i giorni. Tendenza che in realtà non si è mai esaurita del tutto, come dimostrano molte mostre e mercato di oggi. E l’Italia è stata uno dei primi Paesi ad assorbire la ventata di novità anglo-americana dopo le tendenze Informali, grazie anche a figure come Domenico Gnoli, presente in mostra con Reggiseno del 1964 proveniente da una collezione privata, che visse a New York dal 1955 al 1962 e una volta rientrato in Italia diffuse gli stimoli assorbiti nella città americana. 
Domenico Gnoli, Reggiseno, 1964, acrilico e sabbia su tela

È interessante osservare le opere della mostra negli ambienti di questo gioiello architettonico acquistato dalla famiglia Magnani nel 1941. Luigi Magnani, critico d’arte e musicologo, fu un grande umanista, sostenitore del dialogo interdisciplinare tra le diverse arti, si circondò di artisti quali Burri, Manzù, Savinio e Morandi, con il quale ci fu un legame particolarmente stretto. Giorgio Morandi si recava spesso a Villa Magnani e ringraziava l’ospitalità donando i suoi capolavori, e oggi sono circa cinquanta le opere del pittore qui custodite.
Parallelamente alla collezione permanente si articola quindi un’esposizione accesa di quotidianità, colori e storia dell’arte rivisitata che sembra voglia abbracciare le opere del collezionista riflessivo e melanconico, che, chissà, avrebbe accolto benevolmente questa “invasione”.
Chiara Tonelli

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