20 giugno 2016

Viva i cattivi!

 
Kienholz-Reddin alla Fondazione Prada, turbando le anime belle con una carrellata di opere dirompenti. Che dopo 50 anni non perdono un grammo del loro crudo valore

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Finalmente una mostra cattiva come si deve. Finalmente una mostra che urla, che sporca, che urta. Non politicamente corretta, sguaiata e brillante. Intensa ma non catartica, che vi toglierà il respiro in crescendo, come in qualche gioco erotico destinato ovviamente a finire male.
Fondazione Prada dimostra di non sbagliare nemmeno questo colpo, ed Edward Kienholz è dirompente. È piuttosto complicato trovare parole adatte per questo personaggio che sarebbe facile giudicare estremo, o grottesco, o cattivo, pure un po’ perverso, ma che ad uno sguardo appena più profondo si rivela un geniale interprete del presente, perché anche se le opere di Kienholz hanno venti, trenta o quarantacinque anni, continuano a parlarci di noi. Noi, tratteggiati come animali da manuale psicanalitico, perversi poliformi, insabbiatori del buon senso, selvaggi, corpi di pulsioni, rabbie, disturbi, anime scavate e inclini al vizio.
Alle signore per bene Kienholz (che inizia a firmare tutte le opere con la moglie Nancy Reddin, a partire dal 1972 e fino alla scomparsa nel 1994) potrà ribaltare le budella: la componente sessuale regge tutta la mostra, e Freud probabilmente ne sarebbe stato esterrefatto, ma se i vostri occhi volessero per caso fare gli ipocriti e sottrarsi alla visione della violenza, fate a meno di entrare nello spazio SUD della Fondazione, perché ne troverete in abbondanza; da quella televisiva a quella che si nasconde nelle famiglie di orchi, da quella legata al sopruso della donna al machismo, che oltre a commettere discriminazioni razziali reagisce con violenza anche ai complessi di inferiorità in fatto di attributi sessuali. Già, perché se comunque l’universo di Kienholz è stratificato, e simbolico, tutto è estremamente diretto. Un po’ come l’approccio dell’artista ai materiali dei suoi grandiosi assemblaggi. Nato nel 1927, cresciuto nello stato di Washington, emigrato a Los Angeles negli anni ’50, dichiarava: «Mi piace molto vivere qui, anche perché la città ti offre materiale gratuito per lavorare. La gente butta via tantissima roba! Basta avere l’occhio giusto e puoi trovare qualsiasi cosa». 
Edward Kienholz, vista della mostra, Fondazione Prada
Consacrato a Kassel nel 1972, quando Harald Szeemann mise in scena Five Car Stud a Documenta 5, Kienholz era stato anche tra i protagonisti di “The Art of Assemblages”, al MoMA di New York nel 1961, sotto la curatela di William Seitz. Da lì era decollata la sua carriera, che oggi incontriamo a Milano insieme al suo profondissimo sguardo americano che ha fatto proprio dell’assemblaggio, tecnica congeniale al Nouveau Réalisme e ai Neo Dadaisti, da Gérard Deschamps fino a Robert Rauschemberg, alla tedesca Hannah Höch (quest’ultima anticipatrice in qualche modo anche di un’estetica cruda e intrisa di catartica violenza) il medium d’eccellenza per raccontarci allo stesso modo nefandezze private e sociali, con una sorta di profondo distacco. La brutalità compositiva è un’altra parola chiave dello stesso racconto, ed è difficile trovare una “scena pulita” in Kienholz: tutto trasuda sbavature: colla, resina, colore, tagli, ruggine metallica, unioni improbabili di oggetti; un’estetica che permette di scoprire i crismi della cronaca nera, di quello status borderline che si nota dietro le case ordinate dell’americano middle class, che qui invece è tramutato quasi in bestia. 
Edward Kienholz, vista della mostra, Fondazione Prada
In fin dei conti l’uomo non ha bisogno di  molto altro se non della possibilità di scaricare le proprie pulsioni, e in maniera più divertente possibile, specie da quando in campo gioca la società dei consumi: The bronze pinball machine with woman affixed also (1980) vi accoglie all’ingresso. Si tratta di un flipper da bar, sul quale sono incorporate le gambe e i genitali di una donna, completamente spalancati. Ai piedi, come nel più classico dei porno, scarpe a tacco alto e una sorta di messaggio subliminale riassumibile con una delle strofe più ironiche di Rino Gaetano: A duecento c’è sempre una donna che ti aspetta/ sdraiata sul cofano all’autosalone/ e ti dice prendimi maschiaccio libidinoso/ coglione.
Ma più che coglione il maschile messo in scena da Kienholz è morboso, efferato, senza limiti, e nasconde le sue pulsioni nelle zone scure di un’identità a volte mascherata di dolcezza: The Bear Chair (1991) si focalizza sul tema della violenza domestica perpetrata ai danni dei bambini, tramutando l’immagine del celebre Teddy Bear in quella di un minaccioso abusatore, ben conscio di sottomettere un umano innocente che riversa in lui la propria fiducia, esattamente come accade in Jody, Jody, Jody (1993-94) che mette in scena un “semplice” fatto di cronaca nera avvenuto in California,  ma che sarebbe potuto accadere ovunque nel mondo e che – infatti – in diversi Paesi non ha nulla di differente da alcune vicende del banale quotidiano. In questo caso una bambina, aggrappata ad una recinzione metallica di un’autostrada, viene trovata da un poliziotto: è stata abbandonata dal padre, con la promessa di tornare presto a riprenderla. 
Edward Kienholz, vista della mostra, Fondazione Prada

Si potrebbe dire che è tautologico Kienholz, si potrebbe definire anche “figurativo”, ma poi si arriva a Five Car Stud, che i più fortunati (al di là di Kassel) avevano potuto vedere nel biennio 2011-2012 al LACMA di Los Angeles e al Louisiana di Copenhagen, visto che l’opera per quasi 40 anni è stata conservata in una collezione privata giapponese, prima di passare a Prada, e si entra nell’incubo. Potete appostarvi dietro un’auto, seduti di fianco ad un albero spoglio, ma sarete lì, assistendo all’evirazione del nigga, reo non solo di avere un diverso colore di pelle, forse di essere figlio o nipote di schiavi, ma di essersi appartato anche con una donna bianca. Intorno, i carnefici indossano maschere da Halloween e un uomo fa da vedetta alla scena, mentre l’amante della vittima siede sul furgone, impotente. Rassegnata, e circondata dalla musica folk che esce dall’autoradio. Certo ha le mani al volto in segno di orrore, ma è quasi sopraffatta dalla “legge della giungla”, tanto che potrebbe essere indistintamente anche la moglie di uno degli aggressori: la sensibilità femminile le impone disgusto mentre il maschio “gioca” la sua partita di supremazia, ma la congela al ruolo che le spetta anche nella vita, quello della spettatrice. Esattamente come il bambino che osserva dal parabrezza di un’altra macchina, figlio di uno degli uomini, destinato a restare traumatizzato dalla lezione di “come va il mondo”. Ma come si dice, “un giorno capirai”. Davanti a Five Car Stud potrete cercare una via d’uscita simbolica dall’orrore, ma non riuscirete a scappare. E quasi più che semplici testimoni oculari vi sentirete complici della scena: per Kienholz l’installazione rappresentava il “peso di essere un americano”, e oggi forse più di ieri questo stesso peso è di tutti noi, anche se sono cambiati i colori della pelle dei capri espiatori. 
Edward Kienholz, vista della mostra, Fondazione Prada

E di “altri mondi” sui quali dovremmo tenere conto, se non altro per ringraziare di non esservi nati, potrete riflettere entrando nell’inquietante giostra The Merry-Go-World or Begat by Chance and The Wonder Horse Trigger (1991–1994)  e scoprire a quale latitudine sareste potuti appartenere (e quale destino vi avrebbe riservato la vita) girando una semplice ruota della fortuna che illuminerà per pochi secondi un’altra sorte.
Cosa manca? Una forte critica ai simboli del Natale, virati in contenitori e allarmi e giocattoli decapitati (The Nativity, 1961) e anche alla politica e giustizia con i giudici della Suprema Corte tramutati in cani e porci (The Caddy Court, 1986-87). Una mostra complessa, da buttare giù tutto d’un fiato, esattamente come si beve un bicchiere di whisky in qualche bettola del Nevada o dell’Arkansas. Per vedere il mondo un po’ più lucidamente, nonostante gli abbagli. 
Matteo Beragmini

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