10 febbraio 2016

SENTI CHI PARLA

 
Vi racconto la mia geografia sentimentale
di Guendalina Salini

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Il progetto The End of Geography, curato da Raffaele Gavarro, ha inizio con una foto presa in riva al mare, in mano ho un foglio bianco. Le immagini che strada facendo ho raccolto riguardano viaggi, raccontano una ricerca, ma anche una perdita.
Queste foto che mi ritraggono con in mano una mappa bianca, in luoghi del margine e desolati, e che poi ho stampato su un tessuto trasparente, rendono visibile un vuoto. Sono dei paesaggi permeabili alla luce, che indagano il senso del limite e di transitorietà con cui tutti ci confrontiamo, e in fondo aspirano a ciò che più mi sta a cuore: che l’opera d’arte possa essere un passaggio, una finestra. 

Un itinerario che è una geografia sentimentale, tra disincanto, ironia e nostalgia, attraverso il quale ho cercato di rimettere insieme i pezzi di un Paese, l’Italia, nel quale non mi riconosco più, e quelli di un paesaggio interiore su cui poter rifondare un senso di appartenenza, ma essenzialmente questo luogo ideale rimane sconfinato e senza nome! Forse per lo stesso bisogno di appartenenza e calore ho collezionato vecchie coperte, che immagino essere gli involucri più intimi e familiari di chi me le dona e le trasformo imprimendo su di esse con delle polveri colorate i disegni di tanti planisferi. Questa serie di lavori trova una sede espositiva ideale nelle sale dell’Istituto Nazionale di Geografia, a Roma, dove l’idea stessa di geografia viene ripensata e messa in discussione.

Guendalina Salini, The end of geography, foto di Achille Filipponi di Yard Press e la courtesy di Exelettrofonica
Nell’ingresso del palazzo, dove sono conservati mappe, documenti e atlanti che raccontano il modo in cui l’uomo occidentale negli anni si è rappresentato il mondo e nel mondo, ho allestito una sorta di accampamento che vuole essere l’immagine di una resa, un aderire alla terra. Tutte le coperte disegnate formano un tappeto di mondi, che rimandano a un sentimento di accoglienza, un abitare insieme, anche se provvisorio.

L’intenzione che collega tutte le opere in mostra è forse proprio quella di creare vicinanze, abbattere confini, rendere più morbidi e disponibili con le proprie crepe e fragilità all’incontro con l’altro, a una ‘geografia commossa’ (per usare un titolo di Franco Arminio, poeta, ‘paesologo’ di cui una dedica è sul catalogo).

Tutta la mostra ruota intorno a questi temi, la ricerca di un nuove coordinate, prima di tutto interiori, in un momento storico dove la crisi geopolitica ci ricorda la nostra fragilità collettiva e il nostro essere tutti di passaggio, soli, ma anche uniti e collegati in un unica trama (un altro lavoro si chiama proprio Orientamento ed è una grande rete con un disegno realizzato con il piombo). Nella stessa direzione il video La città personale (che prende il titolo dall’omonimo racconto di Dino Buzzati) girato a Monteruga, villaggio agricolo abbandonato nel Salento, indaga un abbandono, un sentirsi disabitati, dove le lotte contadine dell’Arneo raccontano un mondo scomparso, ma con urgenze ancora attuali e vive. Questo forse è il lavoro più personale e intimo della mostra, io e mia figlia che abbiamo abitato per alcuni anni in sud Italia, attraversiamo un luogo desolato dove riecheggia un passato recente, tracce di un’umanità scomparsa, e cerchiamo di rianimarlo. Cerchiamo un sogno utopico, ma necessario, come dice la voce narrante tratta dal racconto di Buzzati: “Nessuno può dire onestamente: che mi importa? Basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto”.

Guendalina Salini, The end of geography, foto di Achille Filipponi di Yard Press e la courtesy di Exelettrofonica
L’ultimo lavoro è una performance che ho immaginato nei sopralluoghi che facevo all’Istituto, quando in quei giorni il mare continuava a portare a riva tante persone e tanti bambini, e il senso di impotenza e di disfatta era, ed è, veramente fortissimo e doloroso.

Ho chiesto a mio nipote, un bambino di dieci anni, di scrivere con degli elementi fosforescenti che restano accesi solo per poche ore e che vengono usati nella pesca notturna una frase tratta dallo Zarathustra di Nietzsche.
 
La frase dice: “Un tempo nel guardare verso mari lontani si diceva Dio”. 
È una frase che il filosofo tedesco fa precedere alla famosa morte di Dio e la profezia dell’avvento del Superuomo.
 Sentivo l’urgenza di ricollegarmi a quel momento, antecedente la dichiarazione della fine di un orizzonte metafisico, una fine il cui vuoto ancora risuona nel nostro mondo occidentale.
Forse anche un’intenzione affinché una luce, anche se provvisoria, possa continuare ad essere accesa e che la nostra pratica di artisti contribuisca ad alimentarla.

Il 15 febbraio 2016 alle 18.30 sarà presentata presso la galleria Exelettrofonica a Roma 
la pubblicazione edita da Yard Press che racconta la mostra.
Il libro è una sorta di diario di bordo che anche nel formato ricorda un atlante e che raccoglie una dedica di Franco Arminio, poeta e paesologo, una citazione dell’amico e compagno di viaggio Mario del Mare e un testo critico di Raffaele Gavarro.



Guendalina Salini

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