26 agosto 2015

Musei, direttori e l’Italia che non cambia

 
Abbasso lo straniero? Ma no! Sono i curriculum che spesso non funzionano e i criteri di selezione dei 20 neodirettori. Mentre l’Italia scopre un’insolita passione per i musei

di

«It’s your cv that counts, not nationality». Giusto, ministro Franceschini, è il curriculum che conta. E il fatto però è che di buoni curriculum, di candidature solide per i venti musei italiani oggi sotto un’inaspettata attenzione mediatica, ne sono arrivati pochi. Trai quali sono stati scelti per lo più storici dell’arte e non manager, di cui sembrava invece si andasse alla ricerca. Prima stranezza. Ma diciamola tutta per lo più, i cv, erano modesti, o comunque non superiori a quelli dei colleghi italiani, che pure si erano candidati. I grandi direttori stranieri o i grandi manager non si sono fatti avanti. E questo solleva una prima, spiacevole riflessione: nonostante il nostro prezioso patrimonio culturale, i nostri musei sono poco appetibili. Come mai? Cattiva fama gestionale a causa di una soffocante burocrazia? Responsabilità di una politica che non li ha sostenuti, ma anzi spesso scaricati, e che ora grida al cambiamento senza spiegare a nessuno su che base il neo direttore, italiano o straniero che sia, dovrebbe fare il miracolo dell’autosufficienza economica? Infine, spiace dirlo anche perché non c’è nessuna voglia di fare le ennesime pulci al ministro: spesso, tra i candidati, sono stati scelti i meno brillanti. Italiani e stranieri che siano.
So di arrivare tardi al dibattito che sembra improvvisamente appassionare l’Italia. E ci arrivo sinceramente stupita anzitutto di un paio di cose: come mai i musei, di cui in genere non frega niente a nessuno, sono così al centro dell’attenzione? Perché è arrivato lo straniero, e in tanti scoprono il leghista o il goffo Gasparri difensori dei patri valori e confini che è in loro? Come mai di questa cosa oggi si parla tanto, e mentre il ministro Franceschini metteva mano alla riforma dei beni culturali, che ha accorpato e cancellato soprintendenze (certo, per la spending review), ha cancellato vecchie direzioni generali del ministero e ne ha istituite di nuove, ha annunciato il cambio dei vertici e l’autonomia dei venti musei ritenuti di importanza strategica nessuno ha fiatato, a parte i soliti noti (noi compresi)? Perché, leghisti o meno che siamo (dentro o fuori), ci piace fare casino solo a cose fatte e mai prima, ignorando il dibattito delle idee, la possibilità di un sano scontro se necessario, mentre in questi giorni i grandi giornali hanno fatto a gara a raccogliere pareri e interviste senza dilungarsi particolarmente sulla riforma e l’autonomia dei musei? 
Gallerie degli Uffizi, sala di Michelangelo
A parte queste domande lievemente retoriche, vorrei puntualizzare un altro paio di cose. Sono emerite sciocchezze le accuse di nazionalismo e corporativismo rivolte al mondo dell’arte. Che avrà tanti difetti, ma che, se non altro per ragioni economiche oltre che squisitamente culturali, è uno dei mondi più globali che ci sia. Dove la mobilità è di casa in andata e ritorno. Anzi, molto più andata che ritorno. Con curatori e artisti che sono abituati a vivere semplicemente dove c’è il  lavoro. E che quindi non ci si stupisce affatto, e magari si è pronti a dare un caloroso benvenuto agli stranieri che arrivano da noi. Magari ne arrivassero di più, sarebbe solo un arricchimento. Il fatto è che in Italia di lavoro ce ne è poco e l’arte non è in cima agli interessi del Paese, e quindi quasi nessuno ci viene. Ma se poi ci arrivano da direttori di importanti musei, beh, allora la faccenda si fa più seria e costoro, specie se devono dirigere musei prestigiosi ma in serie difficoltà economiche, devono essere giudicati con la massima severità e competenza. Sono doti che contraddistinguono Dario Franceschini che li ha scelti in una rosa di tre nomi proposta dal presidente della commissione giudicante Paolo Baratta? Direi di no. E non perché Franceschini sia brutto e cattivo o insipiente. Semplicemente perché è un ministro, che oggi sta alla Cultura e che domani potrebbe stare ai Trasporti o chissà dove (Renzi permettendo), e dunque non è una persona particolarmente competente della materia, sebbene in questo caso sia stato assistito dal direttore generale del Mibact Ugo Soragni. E, in quanto politico, avrebbe semplicemente il dovere di fare un passo indietro. Sarebbe un bel gesto, simbolico e straordinariamente concreto, per inaugurare il nuovo corso di cui parla. E invece Franceschini continua a scegliere: i direttori dei musei come quelli del Padiglione Italia alla biennale di Venezia, non imparando niente dall’estero che dice di prendere a modello nella gestione della cultura, laddove una delle prime regole è la distanza della politica da questa. 
Sala del Trono, Reggia di Caserta
Una delle cose più interessanti che ho letto in questi giorni è sul blog di Tomaso Montanari. La riporto testuale perché merita davvero: “Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto, come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista skype di 2 ore, un colloquio privato col direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in soli 15 minuti!”. 
Il breve, se non risibile, tempo stabilito per decidere di un incarico di tale delicatezza e l’assoluta discrezionalità della decisione del ministro gettano un’ombra su tutta la procedura. Non è in questione, penso, come sostiene Michele Dantini, della mortificazione di una generazione di giovani storici dell’arte, che a causa delle nomine di sette direttori stranieri (sette individui nel mare magnum vacante degli storici dell’arte italiani sono una misera goccia, sebbene simbolica). In questione sono i criteri di una simile scelta e l’ingerenza che su di essi continuano a esercitare ministri e istituzioni che in Italia non hanno imparato a fare di meglio e che si fanno incantare dalle promesse fatte da un qualunque curatore straniero, Eike Schmidt, oggi promosso a direttore nientepopodimeno degli Uffizi di Firenze che, è bene ricordarlo, è il nostro museo più visitato, dato che i musei Vaticani non rientrano nella classifica dei musei italiani. Schmidt, che viene dall’Institute of Arts di Minneapolis dove era curatore e capo del dipartimento di scultura, arti applicate e tessili, con le “mani tremanti” ha annunciato di affittare alcune sale degli Uffizi per eventi di varia natura. Che idea geniale, ci voleva uno straniero per formularla! E pensare, tanto per restare a Firenze, che quando Matteo Renzi, allora sindaco del capoluogo toscano, disse che affittava alcuni spazi di Palazzo della Signoria per eventi e consimili, si scatenò un mezzo putiferio. Mentre i musei italiani, da quelli del patrimonio a quelli di arte contemporanea, è da un pezzo che affittano i propri spazi per eventi e consimili. Altrimenti come sarebbero andati avanti in questi anni mentre il Ministero della Cultura gli tagliava progressivamente i fondi?
Eike Schmidt, nuovo direttore degli Uffizi
Senza sposare per intero le tesi radicali di Jean Clair, che pure spesso ha molte ragioni per denunciare “la crisi dei musei”, “l’inverno della cultura” (titoli di suoi noti pamphlet) e altri apocalittici esiti di una politica culturale appiattita su criteri di solo profitto e trovate manageriali, sarebbe l’ora di ripensare l’intera faccenda a cominciare dai fondamentali e da questi inaugurare veramente un nuovo corso, anziché cominciare dalla fine, cioè dalle persone preposte a dirigere i musei. Come se fosse un fatto di persone, appunto, e non di sistema. Come se non fosse una questione di visione della cultura e del suo ruolo che questa può avere nella nostra società. 
Ma alla fine, forse si sta facendo tanto rumore per nulla. Quanti di questi venti direttori, italiani e stranieri che siano, reggeranno al casino in cui si trovano? Alle condizioni in cui si trovano ad operare, pensando di risolverle affittando gli spazi? Ne riparliamo nel giro di un anno. Magari nel frattempo avranno maturato idee più brillanti, e ne saremo tutti contenti, al di là del passaporto che hanno. Oppure no, e ci troveremo al punto di partenza.     
Adriana Polveroni

1 commento

  1. Certo che i 15 minuti del colloquio mi fanno sentire proprio tonto, quanto tempo avremmo (io e i colleghi) risparmiato nella vita scegliendo persone per incarichi specifici in cosi’ poco tempo. Mi sento veramente un mezzo fallito

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui