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29
maggio 2015
Povera università
Il fatto
Stavolta non parliamo di fondi mancanti (anche se il problema è correlato), ma di una delle tante idee che affliggono i giovani italiani: quello che il famoso “pezzo di carta” non serva a nulla. E le statistiche confermano un pessimo trend che divide ancora una volta nord e sud
di redazione
Difficile credere nella crescita (anzi, nella risalita) di un Paese se i propri giovani sono men che meno motivati a studiare. Eppure è quello che accade, in quello che un’indagine dell’Unione degli Universitari, mette a fuoco come il peggior risultato degli ultimi dieci anni.
Calano gli iscritti agli atenei, – specialmente del sud, dove gli iscritti delle ultime tre stagioni sono 45mila in meno – mentre altri atenei hanno crescite che più minime non si può: 1,5 per cento.
Di chi è la colpa? L’Udu parla di riforma Gelmini come spartiacque del rapporto tra diplomati e università: la riforma universitaria 240 del 2010 ha coinciso con l’inizio della fase peggiore della peggiore crisi economica del Dopoguerra, e dunque anche dell’istruzione, di quel percorso formativo “adulto” che segna la vita di chiunque abbia frequentato le aule delle università.
Risultato? I dati sono sconsolanti, proprio perché appartengono alla risma della percezione “no future”: studenti che si perdono per strada, atenei composti da fuoricorso, e altri giovani che abbandonano visto che la crisi economica non aiuta e, peggio, perché non credono più nell’università come “motore” per una vita migliore.
E cresce, come scritto poco sopra, il divario tra nord e sud complice anche, come scrive il coordinatore Udu Gianluca Scuccimarra, “Una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. Senza interventi immediati e strutturali l’università italiana rischia di morire”.
E poi c’è il blocco del turnover, i 10mila ricercatori “in fuga”, e gli stipendi fermi da cinque anni.
E gli studenti, che dicono? Dall’Udu rispondono: “Pensare a una “Buona università” nata nelle stanze di partito e senza contatto con il mondo della scuola sarebbe follia. Bisogna affrontare le vere priorità a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale, quindi eliminazione dei numeri programmati per favorire l’iscrizione”. Altrimenti non solo avremo i giovani di domani meno scolarizzati dei nostri nonni o genitori, ma potremmo dire “ciao” ad un’Italia competitiva e “in crescita”, come vorrebbero dai palchi della politica tutta. (MB)