28 giugno 2016

CURATORIAL PRACTISES

 
La capacità della pratica artistica di inventare strategie sperimentali
di Camilla Boemio

di

T.J. Demos è un critico e docente dell’Art History Department all’University College of London, scrive regolarmente per Artforum e Texte zur Kunst. La sua analisi verte sulla congiunzione di arte e politica, esaminando la capacità delle pratiche artistiche di inventare strategie sperimentali che sfidino le convenzioni sociali, politiche ed economiche dominanti.
L’ attuale ricerca di Demos indaga in particolare i diversi modi in cui gli artisti hanno analizzato le crisi legate alla globalizzazione: tra cui la congiunzione emergente del post-11/9, la sovranità politica e l’apolidia, i fantasmi del passato coloniale, i conflitti crescenti intorno all’ecologia e il cambiamento climatico. 
Il suo libro più recente è The Migrant Image: The Art and Politics of Documentary during Global Crisis edito da Duke University Press, nel 2013.
Come sono cambiate le pratiche curatoriali e che indirizzo hanno preso negli ultimi anni? 
«Si sono trasformate in modo significativo negli ultimi due decenni diventando sempre più attente all’arte contemporanea nel campo globale. A cominciare dalle edizioni di Documenta di Catherine David e di Okwui Enwezor (rispettivamente nel 1997 e nel 2002), il mondo delle mega mostre ha ripensato i limiti dell’internazionalismo Euro-Americano e ha mostrato una maggiore sensibilità alle pratiche globali in Medio Oriente, Est Europa, Asia del Sud e dell’ Est, Africa, e America Latina. Ora, ci sono sempre più Biennali in queste regioni, da Sharjah a Shanghai, da São Paulo a Istanbul, dal Cairo al Dakar, vi è stato un enorme decentramento del mondo dell’arte. Questo sviluppo è complesso e senza uniformità; si potrebbe dire che il mercato, i suoi sistemi di pubblicità e le sue energie consumistiche stanno assumendo sempre più dominio. Questo accade, anche se ci sono stati numerosi tentativi di mostre importanti, concettualmente ambiziose, che hanno tentano di sviluppare forme di impegno politico, con alternative e opzioni creative al di là del sistema neoliberale, analisi di forme sociali di disuguaglianza, violenza militare e di esclusione politica che stanno crescendo oggi di visibilità su scala globale. Per esempio, ho recentemente co-curato la mostra, “Rights of Nature: Art and Ecology in the Americas”, a Nottingham Contemporary, che prende in esame la pratica ambientale creativa in questa parte del mondo. Con questa mostra, stiamo guardando alle forme di vita come— i fiumi, gli alberi, le farfalle, e i caribou — e agli ambienti è stato accordato il diritto di sussistere senza la distruzione umana, in posti come la Bolivia e l’Ecuador. Come gli artisti hanno risposto a questa rivoluzione giuridica di ciò che è chiamata la giurisprudenza della Terra, una legalità postantropocentrica centrata sull’integrazione biologica? Come si relazionano alla formazione del “buen vivir”, o vivere bene, come nella regione Andina, in base ai valori della partecipazione comunitaria e all’uguaglianza come definito nel clima di attivismo di giustizia, l’ambientalismo, e la cosmopolitica indigena? La mostra tenta di andare oltre il feticismo della merce e lo spettacolo consumistico della maggior parte delle mostre d’arte contemporanea, in realtà contribuisce al pensiero creativo e critico di come potremmo vivere altrimenti, in fuga dallo spettro scoraggiante di una catastrofe ecologica imminente».
T. J. Demos.

In un suo articolo pubblicato con l’artista ed attivista Ravi Agarwal e il film-maker e fotografo Sanjay Kak, esplora le politiche dell’ecologia nel contesto indiano, esaminando l’introduzione del neo liberalismo nell’economia e l’attività antidemocratica delle multinazionali. Affronta anche la distruzione dell’ambiente naturale, l’espropriazione dei popoli tribali attraverso la concessione governativa aziendale delle mega-dighe e dei progetti minerali industriali. Che cosa vuol dire per un artista aver sviluppato le emergenze ecologiche?
«Ho sviluppato questo topic in una recente edizione del giornale Third Text che ho editato nel 2013, dedicato all’argomento “l’arte contemporanea e le politiche dell’ ecologia.” Mi rivolgerò alle loro ricerche anche nel mio libro di prossima pubblicazione, Decolonizing Nature: Contemporary Art and Political Ecology, che uscirà alla fine del 2015 con Sternberg Press. La situazione in India è piuttosto disperata, soprattutto per la gente dei livelli sociali inferiori che si trovano ad affrontare un attacco contro i loro modi di vita tradizionali e che sono obbligati dal governo ad un forzato cambiamento in nome della globalizzazione delle multinazionali. Nelle regioni come Orissa, Dongria Kondh (popolato dai gruppi Adivasi) le persone Indigene si trovano ad affrontare la minaccia di estrazione di bauxite dalla società Vedanta, che vuole minare le colline locali e inquinare i loro fiumi. Luoghi che sono visti dal Kondh come siti sacri, parti integranti del loro ecosistema della biodiversità da cui dipende il loro sostentamento. I tribali stanno combattendo ciò che sostiene l’eco-attivista Vandana Shiva “Il controllo societario della vita”. Oltre al settore minerario, la agroalimentare e l’industria farmaceutica per i brevetti di semi, tentano in tal modo di controllare e mercificare la riproduzione dei nostri sistemi di vita.  Agarwal e Kak sono filmmakers e fotografi che hanno raccontato magistralmente questa ed altre situazioni correlate. Nelle loro trascinanti opere d’arte criticano l’ecocidio delle corporates, e i danni all’ambiente ed alle persone causati da estrazioni distruttive che vedono la Terra non più come una fonte di “risorse naturali”. C‘è resistenza in India, in particolare quella dei guerrieri Maoisti che si battono per i loro diritti contro l’esercito Indiano. Ma la lotta armata non è chiaramente la soluzione, perché ci coinvolge solo nella logica della violenza. Abbiamo bisogno di ripensare ciò che dovrebbe significare oggi “sviluppo”, quanto siamo in grado di vedere chiaramente il danno causato dalla colonizzazione della natura in nome di una disuguaglianza economica e repressione militare. Artisti come Agarwal e Kak tentano di trovare altre definizioni alternative, dove lo “sviluppo” può significare la sostenibilità ecologica, la sensibilità spirituale per forme non umane di vita e dell’ambiente e una maggiore uguaglianza sociale. Questa lotta è urgente. Dobbiamo decolonizzare la nostra società così come la natura per un obiettivo comune: salvarsi dal sistema dal neoliberismo militare!».
Ravi Agarwal, After the flood Series, 2010.
Nel suo recente libro The Migrant Image: The Art and Politics of Documentary During Global Crisis esamina i modi con cui determinati artisti contemporanei hanno reinventato le pratiche documentaristiche nelle rappresentazioni di vita dei rifugiati, degli immigrati, degli apolidi e dei politicamente diseredati. Lei indaga anche gli approcci cinematici di Steve McQueen, degli Otolith Group e di Hito Steyerl. Potrebbe parlarne?
«Il mio approccio cerca di esaminare come gli artisti non si siano concentrati solo sulle vite dei migranti, ma come simultaneamente indaghino anche le condizioni di mobilità rispetto all’immagine. Le immagini non sono più sicure, come il documentario non può più pretendere di trasmettere la verità assoluta, siamo sempre più consapevoli di come il documentario faccia parte di modalità strutturate di rappresentanza, che sono tutt’altro che ingenue, innocenti, o oggettive. Inoltre, nell’epoca dei media digitali e di internet, le immagini—specialmente quelle fotografiche e video—non stanno ferme, ma spesso girano all’infinito trasmutando la propria essenza in varie direzioni, cambiando contesti, guadagnando nuove strutture e sistemi interpretativi di significato. Con una tale ecologia digitale emigrante, è impossibile discutere la verità del documentario, almeno in senso tradizionale. Per me, artisti come McQueen, i Otolith Group, Hito Steyerl forniscono analisi intelligenti e visioni creative delle condizioni dei nuovi emigranti, mentre definiscono gli impegni politici mostrando le circostanze difficili e spesso tragiche di ciò che significa oggi spostarsi, in balia dei sistemi viziosi di controllo delle frontiere militarizzate e delle formazioni sociali xenofobe. Questo è specialmente il caso nell’età della globalizzazione del neoliberalismo, dove, a causa di decenni di politiche di aggiustamento strutturale, l’economie degli stati postcoloniali del Sud del mondo sono state decimate da interessi predatori occidentali, spinte in avanti da istituzioni come l’IMF e la World Bank, la European Bank e l’European Commission. Queste istituzioni stanno rendendo la vita intollerabile in posti come la Grecia e la Spagna, ispirando così un nuovo paradigma della politica nel quale emergono movimenti come Occupy Movements sempre più resistenti alle esigenze della politica di austerità. Gli artisti contemporanei criticamente impegnati nella tematica dell’emigrazione, rivelano questa struttura viziosa, mostrando le vite distrutte in luoghi come la Repubblica Democratica del Congo e le cause annesse alle migrazioni insite nella politica economica europea. Lo fanno anche tramite le loro forme artistiche, nell’estetica dei loro film e video, rivelandone la complessità della rappresentazione in modo innovativo. Sviluppano oggi una solidale lotta politica per la giustizia e l’uguaglianza».
T. J. Demos. The Haunting: Poverty Pornography, Humanitarianism, and Neoliberal Globalization in Renzo Martens's Enjoy Poverty (2008) Renzo Martens, Enjoy Poverty, 2008. Video still. Photograph courtesy the artist.
Che cosa hanno fatto le istituzioni per soddisfare le richieste di un pubblico sempre più esigente? Quali sono le metodologie preferite e i modelli utilizzati da queste ultime negli ultimi anni? Ci potrebbe fornire qualche esempio in Inghilterra o nel mondo.
«Arte e istituzioni accademiche hanno perso molta credibilità negli ultimi anni, in parte dovuto dalla privatizzazione dell’economia. Servono meno l’interesse pubblico per soddisfare di più le esigenze aziendali. Lo si vede nel crescente numero di partnership pubblico-private e nei modi di colmare le lacune del finanziamento con il supporto delle imprese, a causa dell’assenza del governo nel suo impegno sociale nei confronti dei suoi cittadini. Un segno del conflitto di interessi è come le istituzioni si oppongano alla trasparenza riguardo l’economie di queste partnerships (consideriamo il gruppo attivista Liberate Tate con i recenti tentativi alla Tate Modern per liberarla dalle figure coinvolte nell’ istituzione nella sponsorizzazione di BP). Oggi ci confrontiamo con una situazione estraniante nella quale la gente troppo spesso sostiene la politica che a sua volta li priverà dei propri diritti, sia che significhi pagare per frequentare le mostre che hanno costosi biglietti d’ingresso (come per la Biennale di Venezia), sia ciò che di conseguenza trasforma gli spettatori d’arte in turisti-consumatori, o studenti resi meri prodotti per frequentare l’università, da qui l’evidente sgretolamento del progetto di educazione universale. Sono d’accordo con l’artista Andrea Fraser che scrive nel suo straordinario essay  1% C’est Moi che abbiamo bisogno di abbandonare le istituzioni-commerciali dalle gallerie d’arte alle fiere, agli altri contesti commerciali-in favore di un ritorno alla sfera pubblica, alle istituzioni senza scopo di lucro, per rivendicare i beni comuni. In altre parole, abbiamo un disperato bisogno di costruire nuove istituzioni che resistano alla situazione attuale secondo la quale circa 85 persone possiedono la ricchezza della metà della popolazione mondiale, come riportato in un recente rapporto di Oxfam. L’ineguaglianza nel mondo dell’arte non è differente, vediamo questo livello di oscena disuguaglianza perpetuata in tante mostre blockbuster, dedicate ad artisti di sesso maschile euro-americani, in continue gerarchie tra Nord e Sud, Est ed Ovest, e nelle vendite dai prezzi scandalosi. Come possiamo organizzare il mondo in modo diverso, in modo tale che l’arte sia parte integrante della cultura, non il rarefatto divertimento chiuso nei quartieri dei ricchi? Come può la cultura artistica generare la coscienza critica, l’impegno etico, l’inclusività politica, l’uguaglianza economica, e i valori della giustizia, della bontà e dell’amore; sospendendo la dittatura dei media, del feticismo delle merci, della distruzione ambientale, della violenza nei confronti delle donne e degli emigranti? Abbiamo bisogno di nuove istituzioni — posti come 16Beaver in America, La R.O.N.C.E. in Francia, la Zapatistas in Messico, Campus in Camps in Palestina, e tanti altri— che sono organizzati a livello locale e in modo autonomo, non-capitalisti ed ecologicamente sostenibili, che offrono spazi di speranza per un mondo alternativo. Abbiamo bisogno di crescere con tali alternative nel presente!»

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