10 febbraio 2015

B.Side/2 Antonio Ottamanelli

 
di Lucia Bosso
Una rubrica che incontra autori attenti a divulgare con parole e immagini ciò che è progettato, costruito.

di

Antonio Ottamanelli (Bari,1981) è un fotografo di architettura atipico, perché intende lo scatto come azione progettuale al pari della costruzione. Agisce con lo spirito da reporter per affrontare indagini in luoghi critici del mondo, l’Afghanistan, la Palestina, il sud dell’Italia, e le colma di senso educativo facendone lezioni sul significato dell’immagine e della rappresentazione del paesaggio. «Il paesaggio è il luogo dove ci formiamo», afferma.
White Hole è l’ultimo dei suoi progetti, presentato a Genova e curato con Lorenza Baroncelli, Marco Ferrari, Joseph Grima, Elisa Pasqual. Sviluppa un’idea particolare di galleria e si concentra sulla produzione di «investigazioni critiche sulla relazione tra tecnologia, autorità, paesaggio e quotidiano». Partiamo da qui per approfondire il suo lavoro.
Cos’è White Hole?
«L’idea e il nome partono dal concetto del buco bianco, ovvero un oggetto-teorico che emette materia ma nel quale nulla può entrare. E infatti White Hole è uno spazio dove non si può entrare, ma dove accadono progetti, senza orari di apertura e sempre visibili dall’esterno, una sorta di vetrina. Abbiamo inaugurato il 31 gennaio con Fortress of Solitude di Space Caviar e proseguiamo con un progetto al mese fino a gennaio 2016».
Collateral Landscape Gaza
Il tuo lavoro insinua un modo inconsueto di percepire la fotografia, e forse non viene colto del tutto dal mondo della produzione editoriale. D’altra parte hai molto successo presso le redazioni, qui ti comprendono fino in fondo?
«Partiamo da un esempio: Il lavoro Collateral landscape è nato da un’esigenza personale, mi interessava il tema del conflitto non militare, ma che si manifesta attraverso le trasformazioni del paesaggio urbano e rurale. Questo perché leggendo determinati meccanismi che hanno una forma estrema in determinati territori, possiamo comprendere molto meglio cosa succede sui nostri. Questa interpretazione di conflitto, ovvero la  disumanizzazione del reale, accomuna luoghi anche molto lontani tra loro, ma alla luce di quella definizione di conflitto, sono identici. L’idea allora era quella di portare alcune nuove dinamiche all’interno del dibattito architettonico contemporaneo. Ci siamo riusciti con Abitare e con Domus, dove la cosa è stata discussa direttamente con i direttori che erano aperti a questi temi. Quando sono andato a Gaza, mi sono chiesto: siamo sicuri che dobbiamo ancora raccontare Gaza come Paese sofferente piegato da un conflitto? Siamo sicuri che una determinata iconografia aiuti un dialogo onesto, una coscienza comune mondiale? Perché a me interessava usare la fotografia di architettura per offrire un punto di vista diverso su determinate questioni. E poi – e questa cosa non è  usuale – abbiamo deciso di far scrivere le didascalie delle foto alla squadra di Gaza che ha lavorato con me. È emerso il rapporto che i ragazzi avevano con quei luoghi e che descrivevano un’altra città. Queste operazioni sono incursioni forti, che tornano come strumento di riflessione anche istantaneo, perché è lì che si può capire come sta cambiando il territorio, cosa si perde. Non si tratta solo di architettura, ma di esperienze». 
Collateral Landscape Baghdad
Parti dalla parola ‘conflitto’ e la associ a situazioni dove non c’è uno stato di guerra, sovverti il linguaggio, insomma. E dai un nuovo senso all’espressione fotografica. Il lavoro su l’Aquila è un esempio lampante, ce ne parli? 
«Tutto nasce dalla definizione di paesaggio, che quando è inteso come culturale, fa intendere il conflitto non solo in forma militare, ma di ordine sociale. Ciò che è accaduto a L’Aquila può essere analizzato all’interno delle grandi opere, come Expo o Tav, perché la trasformazione del territorio solo inizialmente è dovuta al sisma, ma poi è diventata un progetto di trasformazione completa di quel territorio. I primi giorni non sapevo come affrontare la cosa, perché avvertivo che l’immagine del trauma era stata completamente cancellata. E questo credo sia comunque positivo: la gente si era riappropriata delle zona rossa nella stessa modalità del passato, la passeggiata nel corso, eccetera, sullo sfondo però di una scena post-nucleare. Poi, osservando i bambini, ho focalizzato come per loro L’Aquila fosse una città con una geografia completamente cambiata, non avevano coscienza dell’accaduto. Allora abbiamo deciso di lavorare con loro, facendo disegnare una mappa della città che conoscono, e poi con il video documentare la reazione della loro prima volta nella zona rossa. Questo perché credo sia utile confrontarsi soprattutto con l’esigenza di costruzione di una nuova città. Se smettiamo di pensare alla nuova città, succede come in Afghanistan, ovvero un ammasso di capannoni. Bisogna concentrarsi sul nuovo».
Collateral Landscape NY, 9/11 Memorial
Il tuo approccio è consapevole del presente e rivolto verso il futuro con un monito fortissimo ad agire, in modo civico, quasi politico; non c’è spazio per la contemplazione. Ti riconosci in una volontà di azione?
«Mi ricordo che Gabriele Basilico spiegava come esistesse una predisposizione necessaria che accomuna l’architetto, il fotografo, l’operatore, cioè una tensione verso la ricostruzione. E la foto è uno strumento che permette di modificare il paesaggio, perché modifica un sistema di significati. Ovvero, se consideriamo il paesaggio come un dare significato al territorio, e consideriamo la memoria come il linguaggio che usa tali significati, allora capiamo che la fotografia è un modo per trasmettere un sistema di significati, renderli leggibili. O anche di costruire un’immagine nuova di paesaggio, dove i significati sono cambiati. Questo vale per L’Aquila ma anche per Milano, per New York…
Perché a Wall Street puoi ritrovare i segni postbellici che vedi a Bagdad, ma con un approccio diverso: da una parte si monumentalizza il trauma per esorcizzarlo, dall’altra invece i segni rimangono lì, visibili, perché il trauma è diventato parte della ricostruzione della città, come assorbito. All’Aquila è in corso un processo di perdita della memoria e coincide con la cancellazione completa di pezzi di città. Non ritornano più nelle nostre mappe, che sono anche mentali. Questa è la vera distruzione che mi interessa: l’oblio di pezzi di città, e il suo effetto sulle nuove generazioni».
Spesso ti dedichi a progetti di mappatura geografica, ma con una forte natura antropologica. In che modo studiare il territorio significa confrontarsi con se stessi e comprendere il proprio contesto ambientale?
«Quando all’Università iniziai a dedicarmi alla fotografia, era un periodo di forti tumulti.
Ma mancava la politica, che stava sparendo, e l’architettura si trasformava in un esercizio di consumo piegata spesso al cinismo dei maestri. Dall’altra parte, all’interno del conflitto in atto, si cercava di restituire al paesaggio un ruolo centrale, e per fare questo l’architettura non era lo strumento adatto; invece la fotografia diventava prioritaria e costringeva il fotografo ad un ruolo anticipatore rispetto all’architetto, perché restituisce una versione ontologica del paesaggio e permette un rapporto alla pari tra il progettista e il territorio stesso, restituendo le regole di un dialogo. Questo deve essere un obiettivo, la fotografia come strumento d’intervento reale che inquadra le ragioni politiche della costruzione». 
THE THIRD ISLAND
I tuoi progetti ti hanno portato in contesti culturali istituzionali, ma prevedono uno sviluppo del lavoro conseguente alla raccolta fotografica che, attraverso laboratori di ricerca e workshop, ti permetta di confrontarti con le persone e le piccole comunità. Come si passa dalla Biennale di Venezia a Reggio Calabria?
«Quando ci hanno chiamato in Biennale con il progetto Third Island (un’indagine profonda sulla trasformazione del territorio calabrese, ndr) io dissi da subito che avrei comunque proseguito dopo, avviando un percorso di permanenza sul territorio. Si è subito posto il problema della tematica delicata, il pacchetto Colombo, ma il curatore ci ha supportato tantissimo, e ha posto uno veto. Perché per parlare della Calabria non c’è solo ‘ndrangheta e degrado. E perché allora non usare quella peculiarità, le grandi opere, come tema di riflessione? E in questo senso che ci interessava la Biennale, come ponte per spostare l’attenzione altrove. Andare alla Biennale va bene ma per far passare queste riflessione. Una fatica enorme, ma ben ripagata perché c’è un forte riscontro».
Il tuo legame con il sud è forte, anche per i tuoi natali. Perché?
«È forte perché credo che il sud possa dare una voce importante a visioni diverse e deve conquistarsi questo ruolo, anche in Europa, sul versante mediorientale può giocare un ruolo importante, sul tema dell’immigrazione, che è poi la grande opera che potrebbe davvero diventare motore di ricostruzione del nostro territorio nazionale». 

SUBENDO - Sao Paulo


È chiara la tua idea di educazione al paesaggio, cosa intendi invece per educazione all’immagine?
«La nostra prima scuola è il paesaggio, che ci insegna il senso del primo bene comune.
La fotografia può dare gli strumenti per continuare ad indagare questo sistema educativo, permettere a tutti di emancipare se stessi, ma sentendosi parte di un sistema di memoria collettiva in continua trasformazione. E credo che i problemi che abbiamo oggi in ambito culturale, siano per la maggior parte dovuti alla diseducazione all’immagine. E questo nasce anche da un disequilibrio tra pubblico e privato: quando lo Stato ha smesso di investire nella cultura, ha anche diseducato i privati a farlo, i quali si sono rivolti al consumo, e al profitto sul profitto, e non sul valore. E senza l’investimento nella ricerca, anche l’educazione all’immagine avviene secondo una logica di consumo, e diventa strumento del profitto per il profitto, miope. Non riusciamo a leggere l’immagine e siamo al paradosso per cui non usiamo la didascalia per spiegare l’immagine, ma l’immagine per spiegare qualcosa che dobbiamo dire. Ma così non si aggiunge nulla, ma anzi si definiscono in maniera poverissima le forme elementari. Invece dobbiamo investire sull’arricchimento del linguaggio, cercando di renderlo più complesso, eterogeneo». 
Qual è il significato dell’agenzie fotografiche oggi, quando il consumo economico della fotografia è completamente saltato?
«Per come sono adesso non hanno alcun senso e le storiche stanno chiudendo quasi tutte. Questo perché non hanno capito che il loro compito adesso è trovare il modo di costruire spazi affinché la professione del fotografo possa continuare ad esistere. Ovvero: immaginare dove la necessità della fotografia possa manifestarsi, che non vuol dire solo trovare aziende con cui fare corporate o cercare di pubblicare sulle testate, ma lavorare da vicino sui progetti e cercare il luogo in cui siano compresi, una rivista, una mostra, un progetto educativo. Se si prendessero seriamente cura degli autori, riuscirebbero anche ad aggiornare il linguaggio, ad evolvere. Ma bisogna avere il coraggio di fare una scelta». 

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