12 dicembre 2014

PREVIEW

 
Una visita in anteprima alla Fondazione per l’Arte di Roma per la nuova mostra che si inaugura oggi (A.P)

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È il secondo appuntamento della neonata Fondazione per l’Arte di Roma. E come anche è stato al suo esordio a giugno scorso, al centro di “Basti che non si sassi in giro” che si inaugura oggi, 18 novembre, (titoli sempre fantasiosi, il primo era “Ah, si va a Oriente” che detto dal Mandrione non è poco) c’è il cantiere. Nella fattispecie il lavoro di tre giovani artisti: Manuel Scano Larràzabal (italo-venezuelano), Derek Di Fabio, 27 anni, milanese ma di casa a Londra, e Giovanni Sortino, 28 anni, palermitano d’origine e in giro per il mondo per vocazione, che per un mese hanno convissuto in questo spazio nel quartiere periferico di Roma (il Mandrione), che un tempo non godeva di buona fama e che oggi, pur rimanendo popolare, ha perso però la genuinità povera e a volte anche degradata che tanto piaceva per esempio a Pasolini. 
Tre personalità e tre storie diverse, accomunate, oltre che da una convivenza di un mese, dal ricorso a uno stesso linguaggio: la pittura, declinata in modalità decisamente non convenzionali, tanto da far pensare che, al di là della presenza del colore e a volte addirittura di un pennello o di una spatola, si abbia a che fare con progetti installativi. 
Fondazione per l'arte, work in progress, novembre 2014

 

Ma la pittura, fortemente recuperata dalla generazione di artisti che oggi va dai 25 ai 30, massimo 33 anni (quanti per esempio ne ha Manuel Scano Larràzabal), non ha quasi niente a che vedere con la pittura come si intende tradizionalmente e pesca da e si fonde con altri media con estrema disinvoltura. Perché in questione, è sì il mezzo, il colore, la manualità e soprattutto la processualità, quindi un bisogno di concretezza che evidentemente l’artista ritrova in questo mezzo piuttosto che in approcci più o meno concettuali che spiegano la genesi della sua idea e, con meno forza, anche la presenza del suo lavoro, ma ha anche un carattere simbolico e direi culturale, nel senso che esprime una certa temperie di questi ultimi anni. 
Dà voce, in qualche modo, alla rivendicazione di un modo diverso della pratica artistica e della stessa concezione dell’essere artista, dove il lavoro non si disgiunge dalla vita e dalle relazioni che la innervano. Ha insomma, mi sembra di aver capito, un valore identitario. Con cui si marca una differenza rispetto alla generazione appena precedente e a quella anteriore ancora, che poco frequentavano la pittura,  recuperando però pratiche, sconfinamenti linguistici e gestuali, una certa libertà di ideativa ampiamente metabolizzati proprio da quelle generazioni. 
Manuel Scano Larrazàbal Derek Maria di Fabio Giovanni Sortino
Oggi, invece, Scano Larràzabal, Di Fabio e Sortino, sebbene non abbiano neanche il bisogno di definirsi pittori, attraverso una certa pittura, sperimentano ma a modo loro, affermando una differenza anche performativa del fare arte che si appropria di tutto quanto, anche nel passato più recente, è stato fatto al di là della pittura. 
Scano Larràzabal costruisce delle ingegnose e leggerissime “macchine” che azionano pennarelli e matite. Sono questi, con un evidente apporto di casualità, a realizzare un’opera che poi lui a volte emulsiona con acqua e altre volte sottopone ad altri trattamenti. Per Di Fabio le “isole” colorate che realizza sono occasioni per entrare in contatto con una “terraferma”, dove sia questa che le prime possono esprimere la complessità di una persona e della cui interazione è l’artista per primo a stupirsi. Ma al centro del suo lavoro, come in quello di Scano Larràzabal, c’è un principio di fluidità, la presenza del caso che il controllo pittorico aveva emendato. Chiaro che il loro lavoro non esisterebbe se non ci fosse stata la Bad e la Expanded Painting o, semplicemente, il lavoro di alcuni artisti come Tillmans nella fotografia, ma ora qui si percepisce un passaggio ulteriore. 
Fondazione per l'arte, work in progress, novembre 2014
Più interno al medium, in un certo senso, è il lavoro di Sortino, interessato ad indagare le scale cromatiche, le reazioni dei pigmenti a contatto con certi materiali (per il lavoro che ha realizzato per la Fondazione si tratta di mattoni edilizi), dove quindi in gioco è primariamente lo sguardo del pittore. Ma anche qui assistiamo a uno sconfinamento linguistico, perché Sortino inizia creando un ambiente, quindi con un lavoro tridimensionale, che poi però “dispiega” a terra rendendolo bidimensionale: una sorta di tela materica dove il colore è steso per vedere che accade e come accade. 
Ultima nota: chiacchierando anche con la curatrice della residenza e del progetto, Daniela Bigi, noto che anche stavolta, sebbene con artisti più giovani e schierati nel rivendicare una differenza con le generazioni precedenti, si ricorre però a pratiche largamente in uso in queste: molte parole, molti processi mentali da ricostruire, molto apporto concettuale, che invece, come minimo, si voleva tenere a bada. 
Insomma, il percorso è aperto e forse anche un po’ in salita. E alla fine, se son rose, fioriranno.          

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