03 ottobre 2014

Cartoline dall’America/ Mel Bochner al Jewish Museum

 
di Matteo Bergamini
Una bella mostra, in un museo molto pettinato. Con l’effetto white cube che rischia di uccidere la carica eversiva di un lavoro tanto concettuale quanto “pop-ular”. Che nel contesto urbano sarebbe semplicemente una bomba

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L’occasione è ghiotta per fare un giro in un’altra istituzione a pochi passi dal Met, Whitney e Guggenheim. Il Jewish Museum, East 92th incrocio con la Fifth Avenue, diretto da Jens Hoffmann, è una delle perle del Museum Mile. Non tanto per la collezione della storia del popolo eletto, agli ultimi due piani del museo, quanto per le esposizioni temporanee. Che vi fosse Mel Bochner l’ho scoperto nel modo migliore, ovvero da un cartellone su un vagone della subway.
Il fatto che si resti attratti e si decida di aggiungere una tappa al proprio percorso grazie a una locandina non è cosa indifferente nella selva dell’offerta newyorkese. Significa che qualcosa colpisce nel segno, e in questo caso è il Blah Blah Blah dell’artista, nato nel 1940 a Pittsburgh e di casa a New York City.
Poche sale per una mostra raccolta che non solo è uno specchio sull’uso del linguaggio associato a una serie di follie cromatiche, alla nostra cognizione di simboli tipografici (significanti) che vengono mutati in significato, ovvero nell’immagine mentale che ne deriva dalla comprensione. È in qualche modo è magrittiana “Strong Language”, promossa da Melva Bucksbaum Fund for Contemporary Art, che resterà qui per qualche altro giorno ancora (fino al 21 settembre) e ci sfida a capire e a perderci in quelle costruzioni semantiche, grafiche, sociali, che quotidianamente ci vengono addosso, un po’ sulla scia di Bruce Nauman e della sua celebre One hundred live and die, realizzata nel 1984.
Certamente con Nauman, On Kawara, con l’arte Concettuale degli anni ’60 e un forte interesse verso la filosofia da un lato e la cultura popolare dall’altra, Bochner ha tracciato, specialmente nell’ultimo ventennio, uno strano filo in comune con quella che potrebbe essere definita Pop Art. Ma non è la Pop di Warhol, dei suoi colleghi statunitensi magari nati pochi anni prima di lui e che durante gli anni del suo “apprendistato”, ovvero i ’60, facevano rilucere la faccia dell’America tra Combine Paintings o serigrafie di miti: è una pop metropolitana, è l’avvolgente cacofonia di un linguaggio che poco ha a che fare con la conoscenza, ma è una sorta di trappola per l’occhio, un po’ come potevano esserlo i vecchi cartelloni: generatori di sogni e disgusto, altamente affascinanti.
Le opere di Bochner sono di questa fattura: impossibile sfuggire alla brillantezza dei suoi colori, alla sapienza di tecniche pittoriche che mischiano pennellate e spessori, vernici fluo, optical e materia. E che istigano a leggere, senza appello: $#!+
Divisa in diverse sezioni, la parte forse più interessante è legata alle carte degli anni ’60 e dei primi ’70, dove Bochner è evidentemente affascinato dalla quella che è l’originalità e la sua riproduzione, inventando fraintendimenti sulle teorie della fotografia, piuttosto che dedicando ai propri colleghi artisti dei “ritratti” verbali, come nel caso di Ad Reinhardt o Robert Smithson, oppure associando per un ipotetico film i protagonisti della Land Art a un attore celebre: Donald Judd interpretato da Sean Connery, Robert Morris da Fred Astaire, Carl Andre da Kirk Douglas.
Certo, vederli sotto questa prospettiva, a quarant’anni di distanza, sembrano pezzi di preistoria, divertissement di un’arte di concetto colta, ma decisamente vicina al proprio tempo. Nessuno ha mai pensato, in effetti, di fare un film sulla Land Art. Nessuno forse ha mai pensato di fare un vero film, con tanto di attori famosi e denaro sonante, in vero stile hollywoodiano, su una corrente, su un pensiero, su un nucleo che ha rivoluzionato la storia dell’arte. Come se non potesse essere rappresentabile.
Anche Bochner in qualche modo rappresenta il non rappresentabile, a volte con risultati che sarebbero stupefacenti se iscritti in un contesto pubblico. Continuo a pensare a quel Blah, Blah, Blah su fondo rosso del 2012, usato come manifesto della mostra e appeso alle pareti del treno. Penso a una sua ipotetica proiezione a Times Square, lo penso come cover per un palazzo in restauro, lo penso su un billboard o su un muro, magari sulla High Line, dove ora c’è Ed Ruscha con la sua Honey, I twisted through more damn traffic today.
L’effetto sarebbe dirompente, caustico, violento, fagocitato dalla città eppure non perderebbe quella strana aura che già è dentro le sale del pettinatissimo Jewish. Going out of business, altro grande tableaux stratificato di colore, realizzato negli ultimi tempi, che cosa sarebbe di fronte a Wall Street?!, fiumi di nuance e un messaggio che paralizzerebbe qualche coscienza.
Esattamente come ha fatto tempo fa un attivista a Londra, utilizzando un megafono e parlando da una serie di piazze pubbliche alla folla: nessun proclama, solamente le parole scandite su “Everything it’s ok”. Dopo un poco arrivava, inevitabilmente, la polizia con la richiesta di sgomberare da una proprietà privata (una pubblica piazza) e l’uomo iniziava un semplice proclama sul valore delle parole “Terrismo”, “Terrorista”, “Paura”, “Dispersione”, “Solitudine”, “Infelicità”, “Capitalismo”. Mel Bochner lo fa senza megafoni, ma attraverso una serie di colori a folli tinte, utilizzando le parole di ogni giorno mischiate a provocare non-senso, polemiche, perplessità. Ma stavolta, all’interno del museo, tutto rischia di essere cancellato dalle bianche pareti della “contemplazione”, anziché fatto risaltare nel suo ambiente naturale, quello dell’energia metropolitana. Dove la gente parla e blah blah blah blah.

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