17 settembre 2014

L’intervista/Jannis Kounellis Se l’artista accende il fuoco della rinascita

 
In Puglia, a pochi km da Lecce, un rito ultracentenario tra sacro e pagano dialoga con l’arte contemporanea. Si tratta dell’accensione della Focara, prevista per il prossimo 16 Gennaio. Rito che attira migliaia di persone e che quest’anno avrà come protagonista Jannis Kounellis. Ecco come l’artista ne racconta la simbologia e il senso che secondo lui riveste nella nostra civiltà

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Jannis Kounellis, Novoli agosto 2014, Foto di Annamaria La Mastra

L’edizione della Focara di quest’anno, appuntamento sostenuto con convinzione dal sindaco di Novoli (il paese ospitante), Oscar Marzo Vetrugno  prevede un intervento articolato che avvicina la pratica artistica alla tradizione popolare. E dove Kounellis, oltre a progettare la Focara, realizzerà anche una installazione nel palazzo Baronale di Novoli, il tutto a cura di Giacomo Zaza. Ne abbiamo parlato con l’artista. 
Progetterai il falò monumentale della Focara di Novoli nel 2015, acceso alla vigilia del giorno di Sant’Antonio Abate, il 16 gennaio. Sant’Antonio, chiamato  anche il “Santo del fuoco”, ha vissuto una vita da eremita in preghiera nel deserto. Qualche giorno fa hai detto di sentirti a volte un eremita e, scherzando, che aspiri a divenire un santo. Che valore conservano i santi oggi? 
«In una chiesa protestante, non ci sono icone all’interno, né piccoli santi, né grandi dipinti, nessuna immagine. Anche quella è una chiesa cristiana, ma non c’è l’idea della figurazione perché la figurazione ha regalato a tutti quelli che la usano una vicinanza alla divinità. Noi siamo un popolo di santi, invece, centinaia, ognuno con la loro vita nei centri ma anche nelle periferie. E allora quando si parla di santi si parla anche di questa realtà antropomorfa. Sono figurativamente umani, ma con tendenza di grande idealità. E penso che possa bastare questo per parlare di ‘cultura latina’. Noi abbiamo il bisogno di raffigurare l’uomo, perché anche il santo è un uomo. La diversità tra il protestantesimo e la nostra cultura risiede proprio qui, intorno ai santi che hanno giustificato la fede impegnando la loro vita. Io non sono molto credente, però riesco a capire bene questa marea di uomini che sono vissuti negli ultimi duemila anni con il sacrificio di se stessi, non dimenticando che molti di loro erano persone colte, spesso oppositori al sistema, la loro diversità era vissuta come quella di un artista mosso da una differente volontà rispetto agli altri».
Quindi gli artisti potrebbero essere definiti dei santi con una loro personale vocazione?
«Certo, solo che l’artista è più pragmatico giacché dipinge, fa delle cose, impegna un linguaggio per avere una cosa che a livello espressivo è valida. Questa è la vita di un artista. Inoltre, ha una vocazione e anche un’illuminazione. Trovo tutto ciò significativo e straordinario, come la vita di un santo».
Gruppo con Jannis Kounellis, Novoli, Foto di Annamaria La Mastra

La Focara è un enorme cumulo di fascine di tralci di vite che, bruciate, lasciano solo residui di carbone. Anticamente era proprio questo il suo fine: una grande carbonaia che serviva a trasformare le viti tagliate dopo la vendemmia in combustibile, da utilizzare per creare energia e per riscaldare. Il fuoco porta con se una forte drammaticità perché brucia e distrugge, ma in questo caso che valore ha?
«Ci sono ancora adesso dei posti come nelle Marche dove il carbone viene fatto così. Invece il fuoco è diventato un elemento fortemente artistico a Novoli dato che non viene più fatto per creare del carbone. Anche quando non è un artista a progettarlo è un atto artistico. Il fuoco ha una forza unica e pazzesca, è verticale e va dritto al cielo, quasi un elemento spirituale. Tuttavia è opera dell’uomo, fa sentire l’uomo forte e sano. E questo fuoco ha ancora più significato perché è a nome di Sant’Antonio. Fare il fuoco nel nome di un Santo rende tutto più straordinario e potente. A nome di Sant’Antonio la gente di Novoli esprime un ‘atto di potere’ mediante un rito propiziatorio, un rito che possiede una forza e spettacolarità unica. L’uomo ha bisogno di dare un nome alle sue azioni, per cui ‘nel nome di’ sicuramente onora e glorifica tanto il cristianesimo quanto la grandezza di un popolo. Non è retorica dire che a suo nome, e nel nome di Sant’Antonio, questo popolo mantiene una forza grandiosa. È dare una motivazione profonda. È un grande gesto fatto da tutta la comunità, è questo che fa sentire unite le persone e non le fa sentire deboli e sole. È il diapason per scrivere una poesia».
Perché si continua ad accendere questo fuoco secondo te?
«È una tradizione e le tradizioni non spariscono mai. Altrimenti gli uomini si sentirebbero soli. La tradizione è tutto, come ad esempio il matrimonio non sparirà mai: è una tradizione che unisce gli uomini e non li fa sentire soli. Noi viviamo di tradizioni, per vincere la solitudine,  è così! Se pensiamo ad esempio a tutte le popolazioni che si basano sull’agricoltura, vivendo una simbiosi esclusiva con la terra, costrette ad affrontare improvvise catastrofi, capiamo l’importanza di questi riti, utili a riportare non la pace ma l’equilibrio. Questo è il significato del rito del fuoco: il bisogno di vincere. L’uomo equilibrato è l’uomo giusto, e gli uomini hanno bisogno di ritrovare l’equilibrio che ogni tanto perdono. Ritrovare l’equilibrio fra le catastrofi».
Jannis Kounellis all'agriturismo Li Calizzi, Novoli. Foto di Annamaria La Mastra

La Focara attira migliaia di persone in un paese che normalmente conta circa ottomila abitanti, com’è possibile?
«È certo, di fronte ad una vittoria tutti ne vogliono essere partecipi, la vittoria coinvolge moltissimo. È la vittoria di una comunità che costruisce con il proprio sangue (tagliando al suolo e poi bruciando i rami delle vigne dalle quali viene fatto il vino) un grandissimo falò,  a cui dà fuoco per proclamare la vittoria. La vigna simbolicamente è la vita, il vino è la linfa vitale, il sangue. È un rituale quasi teatrale. Questo fuoco non riguarda la morte ma riguarda la rinascita, la vittoria che è la fine della morte! Il fuoco è quell’elemento fondamentale che aiuta la nuova formalizzazione, non si tratta di un fuoco punitivo, il fuoco dell’inferno, è il fuoco della vittoria di un popolo, che non ha niente a che fare con il socialismo ma con la sopravvivenza».
Lo scorso anno, dopo essere stata a Novoli per la festa dell’accensione della Focara progettata da Hidetoshi Nagasawa, ho pensato: ecco l’Italia, tantissima gente, concerti dal vivo, persone che festeggiano e ballano fino a notte inoltrata, la processione del Santo, gente che piange e prega, giovani e anziani che condividono insieme un rituale pagano e religioso. C’è speranza in una futura rinascita o la popolazione italiana è destinata ad una situazione sociale drammatica e critica?
«L’Italia è tutto questo, ha una vitalità drammatica, basta vedere un quadro di Caravaggio e si capisce tutto. Questo è l’italiano. È vero. E si ama l’Italia anche per la sua capacità rivoluzionaria e per la cognizione dell’alternativa drammatica. In Italia si ripete il rito del dramma, tuttavia bisogna ritrovare la gioia di vivere questo dramma perché attraverso il dramma si crea la letteratura e l’arte. Come il fuoco che attraverso il suo dramma crea una rinascita, è così che dobbiamo vivere il dramma».

Jannis Kounellis con Giacomo Zaza, foto di Annamaria La Mastra

Bisogna costruire una grande opera e poi bruciarla con il fuoco per sperare in una ricrescita?
«Oggi si dice che l’Italia non ha un’identità, ma non è vero. Possiede una fortissima identità, basta entrare in un qualsiasi museo, te la raccontano anche i muri. In Italia non si poteva fare la pop art e quelli che l’anno fatta hanno sbagliato. Perché non è quella la nostra problematica, purtroppo si cerca sempre il nuovo anche se questo non è quello giusto. Bisogna avere una novità separata da offrire, che viene dal fondo del pozzo, allora sì che sei credibile. Il nuovo che non ci appartiene non è sempre la giusta strada, anzi bisogna diffidare dalla propaganda del nuovo, perché non ha finalità di ricrescita per noi».
È forse questo che sta in un certo senso penalizzando le giovani generazioni rispetto alla vostra, la ricerca di un nuovo che non fa parte della nostra storia e non ci appartiene?
«Il nuovo è anche avere la forza di nascondere un provincialismo. Il provincialismo a volte è la ricerca di un nuovo che non si comprende fino in fondo».
Michelle Coudray Jannis Kounellis, Novoli 2014, Foto di Annamaria La Mastra

È quello che volevi dire quando hai affermato io sono internazionale, ma non globalizzato e non credo nella globalizzazione?
«Ecco io lo so che quello che dico mi penalizza, sotto certi aspetti, ma lo dico. Non voglio essere un altro e per non esserlo devo dire ciò che sono. In questo senso c’è anche un attimo di conservatorismo, lo accetto e forse però in questo momento il conservatorismo è la novità di cui abbiamo bisogno. La vera novità nasce anche da una base conservativa. Hai il grande piacere di parlare con la gente che ami, e dunque bisogna conservare la lingua per poterlo fare, in caso contrario non puoi capirti profondamente. Questo non vuol dire che non ti spendi nel mondo, vuol dire che mantieni un punto di vista: per leggere il mondo ci vuole questo punto di vista che ti permette di essere un lettore sincero. Vedere amare ed essere attratto, grazie alla tua unicità puoi farlo, senza la tua unicità non puoi essere attratto dal diverso, non sei nessuno, non ti invitano neanche a pranzo!»
Quindi i confini geografici e territoriali possono salvaguardare questa unicità?
«Certo, abbiamo bisogno dei confini che ci caratterizzano per poter sviluppare un’attrazione, un’apertura. Il confine ti da i mezzi per poter leggere e per poter avvicinare gli altri, per avere un punto di vista, altrimenti non puoi andare verso l’altro, perché l’altro non si riconosce in te, è questa la dialettica. Nel piatto devi sempre lasciare qualcosa, allora l’altro si apre, questo è un metodo secolare di dialettica ».
Oscar Marzo Vetrugno, Jannis Kounellis, Giacomo Zaza, Novoli 2014, Foto di Annamaria La Mastra

I regimi totalitari hanno nei loro programmi cercato di bloccare la dialettica, può la globalizzazione rendendo tutto uguale e abbattendo i confini impedire la dialettica? 
«È uguale, lo stesso meccanismo. Non puoi pensare di partire da qui ed andare dalla parte opposta del mondo trovando, alla fine, uno che è un tuo gemello, ciò risulta insensato! Tu parti e vai verso l’altro accettando le sue diversità e instauri un dialogo, profondo, un dialogo che vuole superare anche le diversità. Soltanto con la diversità c’è una libera conversazione, un arricchimento che ti commuove, e sono commosso quando trovo uno che mi dice delle cose di fondo. La pseudo naturalezza della globalità è la perdita di tutta la libertà della diversità, difatti la sua finalità è l’economia e non la cultura! L’artista non ha niente da condividere con questa globalizzazione e con queste finalità economiche. Certo dobbiamo pur mangiare anche noi, non voglio fare il moralista. In ogni caso bisogna riconoscere che l’urgenza di ogni vero artista è quella di dare significato ad un’opera, le altre cose possono interessare a lui come interessano a tutti, ma non sono prioritarie. Un artista non può mettere in gioco niente, altrimenti non è più un artista!»
Siamo in un vicolo cieco, in un punto di non ritorno? 
«Assolutamente no, come sempre la positività vince».
Quindi la drammaticità della tua opera ha un risvolto positivo?
«Sono drammatico. Ciò non vuol dire che non sono positivo. Anzi io sono positivo proprio perché vivo il dramma. L’Italia uscirà senza dubbio da questa condizione drammatica e questa grande opera che realizzerò per la Focara di Novoli sarà un fuoco di rinascita. Metafora di una rinascita culturale, alla nuova critica e ai nuovi artisti».

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