16 luglio 2012

MUSICA No, l’opera lirica no!

 
Ma l'opera, quella che si canta si ascolta nei bei teatri, è roba vecchia davvero? Eppure il Don Carlo parla di cose che ci riguardano. E con il Nabucco, che arriva dritto e attuale dall'Ottocento, un anno fa è accaduto un miracolo. Continua il nostro viaggio tra critici musicali sui generis. Questa è la volta del giovane artista romano Gian Maria Tosatti

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Sì, l’opera lirica, roba vecchia, intrattenimento per gerontocomi borghesi. Non ci appartiene più. È una cosa superata, una cosa del passato, come il grammofono, la bicicletta, la pittura. O magari anche peggio, perché a pensarci bene, il grammofono, sì beh, è ancora il primo iPod senza batteria capace di sfruttare una energia pulita al 100 per cento, ossia la meccanica. E anche la bicicletta conserva un suo certo status d’avanguardia, essendo il mezzo di locomozione prediletto di quei Paesi che portiamo sempre a paragone quando si tratta di definire un alto grado di civiltà. Per la pittura, direi quasi che non ci sarebbe speranza. Però pare che stia tornando in voga.
Ma la lirica no. La lirica, mi si permetta, è vecchia e basta, come il suo pubblico over 60, no, over 70, anzi, over 80. E i temi della lirica… superati. Pensiamo solo ai titoli, il Don Carlo, il Nabucco. Il primo racconta una vicenda del Cinquecento, e ancora più lontana è la vicenda del Nabucco, che parla della schiavitù degli ebrei a Babilonia, una città che nemmeno esiste più. Milioni di euro statali per una cosa che se funzionava ancora nell’Ottocento è stato solo per via della musica di Verdi, che all’epoca era un contemporaneo e suonava contemporaneo. Adesso però basta. E a chi afferma che la lirica abbia ancora qualcosa da dire, io risponderei che è come quegli orologi rotti, ormai esauriti, che segnano l’ora giusta solo due volte al giorno, per coincidenza. E poi, per far capire che quando parlo so quel che dico, le potrei anche citare le due volte in cui, in questo momento della Storia, questa coincidenza si è verificata.
Milano, dicembre 2008. La crisi economica squarcia il velo di Maya e il mondo, ci appare per ciò che è, un sistema di poteri oppressivi che attraverso una dottrina in crisi (il capitalismo) difende i propri privilegi e cerca di resistere ai cambiamenti della Storia tagliando le gambe per primi ai giovani, alle nuove generazioni portatrici di slanci innovativi. Alla Scala, la stagione si apre col Don Carlo, una storia “di poteri oppressivi che attraverso una dottrina in crisi (quella del cattolicesimo controriformista) tentano di resistere ai cambiamenti della Storia tagliando le gambe ai giovani”, arrivando a sacrificare i propri stessi figli, l’illuminato Rodrigo e Carlo stesso.
Il presente era tutto lì sul palco, davanti ai nostri occhi. Tutto chiarissimo. La storia di una rinascita abortita perché il protagonista non ha abbastanza forza per strappare il proprio ruolo alla Storia. Non c’era solo il presente, dunque. C’era anche un avvertimento, una premonizione da contrastare. C’era la storia di una generazione debole che si trova su un baratro epocale senza essere preparata, senza essere forte abbastanza per saltarlo e superarlo, rischiando di finirci dentro. Il boccascena della Scala si rivelava un grande specchio inquietante. Tempo battuto perfettamente. Per una volta.
La seconda volta è stato nel marzo 2011. Correva la primavera di un grigio 150esimo dell’Unità nazionale, con l’Africa in fiamme e un’Italia sotto lo scacco di un potere ventennale giunto agli atti più estremi della sua decadenza. I fuochi di Tunisi, Tripoli e Il Cairo brillavano oltremare nelle notti serene come baluardi d’incitamento. Il vento di un Mediterraneo in rivolta batteva le nostre coste nelle giornate in cui la politica si barricava a palazzo per difendersi in una stasi istituzionale che strozzava gli italiani. Al Teatro dell’Opera di Roma si dava il Nabucco, la storia di un popolo eletto – come lo sono tutti i popoli – oppresso da una tirannia. Riccardo Muti, sul podio, dirige il coro del «Va pensiero!». In platea, un’ovazione. Il Maestro si volta verso il pubblico e chiede a tutti di cantare di nuovo quel coro perché la voce degli italiani si levi contro un degrado culturale e identitario insopportabile. La voce del pubblico squilla nella commozione e vibra nel passaggio «o mia patria, sì bella e perduta». Un intero teatro cantava e in quel teatro cantava tutto un Paese, che da quel momento iniziava a cambiare pagina. Tempo battuto perfettamente. Una seconda volta.

Ma sono solo coincidenze. Adesso questo non ci faccia pensare che l’opera lirica sia davvero come la tragedia antica, che anzi ne sia addirittura la forma moderna, che sia capace di trasformare i teatri in specchi, quando nessuna televisione è più in grado di raccontare con lucidità il presente. Non crediamo che basti la potenza di una musica perfezionata in una tradizione di secoli perché i concetti arrivino dritti al cuore generando una catarsi. Non pensiamo che proprio per tutte queste congetture sbagliate sia stata proprio la lirica a scandire i momenti cruciali di questo nostro presente storico, dal «Viva Verdi» che ha unito l’Italia, fino ad oggi, meglio di ogni altra forma di rappresentazione della realtà. Dico, no, non pensiamo.
di gian maria tosatti

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te l’eri perso? Abbonati!

1 commento

  1. Buongiorno,
    Mi si perdoni l’ingenuità. Ma il testo del buon Tosatti è ironico, vero? Non l’ho veramente capito.
    Perché se fosse scritto fuor di metafora, sarebbe un distillato di qualunquismo che fa veramente sorridere.
    Dall’alto della sua giovane età e delle sue argomentazioni che tradiscono una conoscenza del fenomeno opera francamente da poco più che wikipedia, mi chiedo: si è mai fatto un giro nella maggior parte dei teatri stabili e dei festival operistici, prima di affermare laconiche certezze sull’età media dei partecipanti?
    La chiave del valore artistico o umano di una forma d’arte è data solamente dal suo piacere ai giovani, ai presunti cool, agli hipsters?
    Non trova ridicolo definire il grammofono una sorta di ipad ad energia pulita, o l’opera un orologio fermo che segna l’ora esatta per caso due volte al giorno, fingendo di dimenticare il valore intrinseco, umano, che molte opere (una per tutte: Don Giovanni) incarnano agli occhi di tutti quelli che si accostano al fenomeno con la mente scevra di pregiudizi, da circa 250 anni?
    Chi scrive fa l’effetto dell’italieno in vacanza che porta con se il fornelletto e un chilo di spaghetti per cullarsi nelle sue certezze per paura dell’ignoto, quando si trova in territorio estraneo. Il foie gras è da babbioni, vuoi mettere una carbonara? L’opera è da geronti, solo Il Nabucco e il Don Carlo hanno fotografato la realtà. Sillogismo per: si smetta di spendere per chi ha un piede nella fossa, diamo soldi a me e ai miei amici che siamo tanto giovani e cool.
    Con che compiaciuta miopia si accostano i capisaldi della cultura occidentale (trasmessi amati coccolati e rispettati da centinaia di anni, a volte migliaia) alle espressioni autoreferenziali di sedicenti artisti, che non si sa neanche se supereranno il vaglio del prossimo decennio?
    Io ho 35 anni e vado all’opera da quando ne avevo 14, e con me altri coetanei che ora ci portano i loro figli, e tutti insieme speriamo che il prossimo che parli di noi come di decrepiti fuori moda abbia almeno l’onestà intellettuale di farsi un salto in un teatro di qualità, prima di twittare in redazione il suo bell’articolino pieno di luoghi comuni.
    Peace and love

    Giorgio Lucentini

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