06 maggio 2012

Frieze, da Londra a New York, passando per il Made in Italy

 
Foto di gruppo di una fiera in chiusura. Guardando alle partecipazioni, soprattutto italiane. Intanto Frieze una vittoria se l’è già aggiudicata: difficile che una fiera sia accolta indistintamente dagli addetti ai lavori con l’entusiasmo che l’ha circondata. Perché da nove anni fa il pieno di consensi a Londra e oggi, tutto questo, non è poco. Saranno le grandi organizzazioni fieristiche mondiali a risollevare il mercato occidentale? [di Matteo Bergamini]

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Sono state 180 le gallerie che hanno affollano il parterre di questa prima newyorkese di Frieze, in chiusura lunedì a Randall’s Island. Provenienti da tutto il mondo e, insieme alle “regolari” partecipanti di Frieze Londra, sono arrivate anche le più giovani, ovvero quelle aperte da meno di sei anni, a cui sono stati dedicati il programma “Frame”, e il “Focus” sulle istituzioni nate dopo il 2001, che potevano presentare un massimo di tre artisti ognuna.
Tra le glorie possiamo solo elencare qualche nome, da Marianne Boesky di New York, che insieme alla Pace di Chelsea ha riportato Pier Paolo Calzolari negli Stati Uniti dopo oltre vent’anni di assenza, Cabinet di Londra, Gisela Capitain di Colonia, che detiene l’esclusiva per le opere dell’ormai mitico Martin Kippenberger, Chantal Crousel da Parigi e Gogosian, 
Andrea Rosen e Sprüth Magers, White Cube e David Zwirner.
Un mercato che si concentra soprattutto nell’ambito occidentale, ben suddiviso tra Europa e Stati Uniti e che conta poche, pochissime presenze, dall’Oriente e dagli Emirati Arabi (in fiera solo con la galleria The Third Line di Dubai).

Italia in prima linea? Potremmo quasi dire di sì, con le milanesi Raffaella Cortese, Massimo De Carlo, Kaufmann Repetto e Giò Marconi, il “focus” della romana T293, Alfonso Artiaco, Continua di San Gimignano e Massimo Minini, che di certo non hanno bisogno di localizzazioni.
A un giorno dalla chiusura, i pareri positivi sono stati tanti, anche se spesso calibrati in relazione al debutto della nuova fiera. Risoluto Alfonso Artiaco: «La qualità delle gallerie partecipanti e la ottima organizzazione con cui si è presentata la fiera, dà adito a delle ottime aspettative per la nostra galleria» aveva dichiarato all’apertura. Dello stesso parere, ovvero di una fiera organizzata egregiamente dalla direzione di Amanda Sharp e Matthew Slotover, è stata Raffaella Cortese, che però mette anche le mani avanti: «Le fiere sono sempre dei terni al lotto. Le gallerie selezionate per Frieze sembrano avere tutte proposte interessanti e ha rassicurato molto l’entusiasmo che abbiamo riscontrato dei nostri collezionisti italiani e la curiosità che ha suscitato la notizia di questa prima edizione di Frieze in America».
Tra gli artisti rappresentati da Cortese, spazio ha avuto Marcello Maloberti, attualmente in mostra al MACRO con la personale Blitz, di cui la galleria, per promulgare il “momento d’oro”, proporrà una grande installazione che occupava buona parte dello stand a Frieze.

Minini ha proposto invece Alighiero Boetti, Turi Simeti, Paolini, Ian Hamilton Finlay, Anish Kapoor, Hans-Peter Feldmann, André Cadere, e David Maljkovic. «Pochi ma buoni» ha riferito il gallerista, speranzoso riguardo al clima che si è venuto a creare intorno ad uno degli eventi dell’arte del 2012: «É stata la prima volta di Frieze ma è anche la mia! Era impossibile fare previsioni, ma c’è stata molta curiosità per una manifestazione fatta da gente in gamba che ha fondato a Londra una fiera vincente». E alla domanda se Frieze New York, in quale modo, potrà diventare una Art Basel in versione statunitense Artiaco risponde che solo la prova del tempo potrà dirlo, anche a causa dei trascorsi eccezionali di Basilea, difficili da eguagliare per chiunque. 
Raffaella Cortese invece la butta sulla “rete”: «La tendenza di avere, per un’organizzazione fieristica, più eventi in giro per il mondo oramai sembra evidente. Vedremo negli anni a venire se è una strategia che darà frutti. Ormai negli Stati Uniti ci sono tre fiere importanti: l’Armory a New York, Art Basel Miami e ora Frieze, che ha tutta l’aria di essere un ottimo competitor all’altezza».

Una prova importante per tutti, dove l’Italia è stata presente anche in alcuni eventi collaterali alla fiera: Cecilia Alemani, già recentemente nominata curatrice per la sezione Arte della High Line, nuovo monumento newyorkese, è l’art director del programma Frieze Projects, sponsorizzato da Mulberry e attraverso il quale sono stati promosse una serie di installazioni site specific che interagiscano con la geografia dell’isola di Randall, sede della manifestazione. Otto artisti per otto opere in esterno, in dialogo con l’ambiente: John Ahearn, Uri Aran, Latifa Echakhch, Joel Kyack, Rick Moody, Virginia Overton, Tim Rollins e KOS (Kids of Survivor) e Ulla von Brandenburg.
Inoltre la Alemani ha anche curato i vari talk di Frieze, un programma giornaliero di presentazioni, tavole rotonde e conversazioni che hanno visto  avvicendarsi, tra gli altri partecipanti, Georges Didi-Huberman, l’artista Zoe Leonard, Saskia Sassen, professore alla Columbia e redattore per Artforum, Robert Storr e la neo-direttrice dell’area moderna e contemporanea del Metropolitan, Sheena Wagstaff. 

E c’è anche stato un altro giovane curatore italiano, Alessandro Rabottini, dal GAMeC di Bergamo, tra le fila dei giurati del premio al miglior stand della fiera, sponsorizzato da Champagne Pommery, che ha messo in palio 10mila dollari per la galleria che ha presentato l’allestimento più innovativo.
Le vendite? I dati veri risapranno tra qualche giorno. La soddisfazione, che le gallerie in genere dichiarano a chiusura della fiera e, anni fa anche in corso, per ora non accenna a calare. Ma per un vero bilancio è presto. Mentre sta scaldando i motori Art HK 12, dall’altra parte del pianeta. Perché anche quello delle fiere è un mondo sempre più globale.

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