07 febbraio 2018

Le stories di Tino

 
Sehgal alle OGR di Torino. Una mostra evento per due ore di azioni che fa riflettere sul potere dell'arte, sulla collettività, sull'individuo e sul lato oscuro del sistema e delle idee

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Mi si avvicina un ragazzo, mi saluta con il fiato corto. Ha appena finito due giri di corsa da un lato all’altro delle Fucine di OGR. Ha le labbra cosparse di rossetto rosa. Vuole raccontarmi una storia che inizia con “lei” che arriva alla sua casa, in montagna. Era dolce, era tenera. Il ragazzo la ospita: «Avevo 23 anni e non ero ancora molto consapevole delle relazioni». Lei resta con lui una manciata di giorni, poi muore: «Era solo una gatta, ma mi ha fatto scoprire il valore della vita e l’inevitabilità della morte».
Questo è il mio personale intro alla “mostra” di Tino Sehgal alle Officine Grandi Riparazioni, a cura di Luca Cerizza, che accompagnerà i visitatori fino al prossimo 17 marzo.
Seghal non ha bisogno di grandi presentazioni, visto che a poco più di 40 anni ha vinto un Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2013, e in laguna ha rappresentato anche la Germania nel 2005, ed è stato protagonista di uno dei più affascinanti interventi a Documenta 2012.
Nell’editoriale che ho scritto per Exibart 99 riflettevo in poche righe sul ruolo dell’arte, visto che tra nomine dirette e auto-proclamazioni spesso si perde il senso primario della disciplina. Ho preso spunto dalla costituzione del prossimo “Ministero della Solitudine” indetto da Theresa May nel Regno Unito. Che rapporto esiste tra l’arte e l’essere inevitabilmente solo dell’uomo? Inscindibile.
Per sfuggire alla sua condizione di “essere solo” l’uomo si è dovuto inventare le relazioni, e le unioni hanno creato storie. È questo l’aspetto che più balza alla mente in questa esperienza torinese attraverso le azioni messe in scena da Tino Sehgal con i suoi danzatori, cantanti e attori preparati ma improvvisati. C’è chi si approccia agli astanti con fare impacciato, raccontando episodi un po’ noiosi, altri esilaranti: «Nel 2013 facevo lo schiavo in una galleria di Berlino. Non ne potevo più. Un giorno il proprietario mi disse di portare al piano terra un’opera d’arte composta da due palle. Non avevo voglia, erano anche pesanti. Così le presi entrambe ma mentre scendevo le scale mi caddero e si ruppero. Non persi l’occasione, e andai dal gallerista e gli dissi: “Mi si sono rotte le palle. Le mie e anche quelle dell’opera. Lui rispose “It’s ok”». Fine. E via a correre, con un sorriso.
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DIEGO PERRONE x Tino Sehgal @OGR Torino
Il famigerato pubblico, resta lì, serio e incredulo, i più arditi sorridono, pensando a quante storie inutili e stupide ci sono nel mondo che sono le proprie. La maggior parte “morali”, vogliono insegnare a uscire dall’infelicità; vengono raccontate come favole per divertire gli amici e stupire i “nemici”.
«Se uno dei miei lavori viene messo in mostra in un museo e in diecimila o in centomila lo vedono, chiaramente lascia un segno. Lascia un segno nei giornali, nelle storie che le persone raccontano», spiega l’artista a Hans Ulrich Obrist, che dal 2002 lo intervista ogni tre anni. 
Ah, le storie! Non tutte sono avvincenti come gli acuti delle due giovanissime interpreti che con la voce sembrano spaccarti i timpani in quella meravigliosa “camera” dove un tempo stridevano i metalli che aggiustavano i treni. E non tutte possono essere ricordate: «Che belli i musei, che dialogano con la storia. Chissà perché sono nati solo due secoli fa. Forse perché prima il tempo scorreva molto più lentamente, e il passato si ricordava senza doverlo conservare», dice la reincarnazione del manga An Lee. Potrebbe essere un’altra chiave di lettura per un’esperienza che – come tutte le esperienze della vita – forse non ha bisogno di troppe sovrastrutture, perché “accade” semplicemente. Ma tutto quello che accade, ovviamente, ha risvolti profondi sull’andamento del mondo, anche se ci sembra una bazzecola. Avreste mai riflettuto sul ruolo del museo durante la visione di una performance se An Lee non si fosse piazzata al centro delle Fucine recitando con voce meccanica? Perché siete qui, alle OGR? Che cosa state cercando?
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PHILIPPE PARRENO, disegni ispirati all’opera AN LEE di Tino Sehgal
«Il mio contributo più grande è stato quello di portare l’azione dal vivo – solitamente legata a un concetto di collettività – in luoghi caratterizzati da modalità individualizzate, come il museo con i suoi orari […] permettendo l’emergere di nuovi tipi di partecipazione». Anche questa è un’altra versione di Sehgal, sulla scelta delle sue scene. E di una posizione precisa verso quella che è la natura dell’esperienza [Tino afferma che ha smesso di chiamare opere i suoi lavori, n.d.r.]: «C’è qualcosa di politicamente problematico nell’arte vista come costrutto composto da entità individualizzate, autonome, isolate. Oggi questo non si può più fare. Se lo fai stai promuovendo la modernità e le sue modalità, quella della separazione soggetto-oggetto. Qualunque sia la modalità di questa separazione, se crei un’opera la utilizzi. Anche se le dai un titolo. […] Per me è più importante il fatto che le persone decidano di recarsi in quella che chiamano un’istituzione per l’arte e che agiscano così per fare un’esperienza».
E allora, tornando a Torino, riflettereste sulla possibilità di andare controcorrente quando dall’orizzonte arriva uno squadrone umano che avanza lento ma senza tentennamenti e che non vede ostacoli di fronte a sé? Che cos’é? Un tableaux vivant a rallentatore?  Una citazione cinematografica? O sono storie che vi vengono addosso e basta?
Forse non è giusto trattare un articolo che avrebbe lo scopo di chiarire e divulgare un’esposizione alla stregua di un flusso di pensieri, ma in alcuni casi altro non si può fare che invitare a lasciarsi andare e a prendere parte a questa “messa” pagana che ha a che fare – senza alcun dubbio – con la poesia e la narratività dell’esistenza. Con quelle due cosette che continuano a “salvare” l’umanità dalla morte: le immagini e le parole. 
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DIEGO PERRONE x Tino Sehgal @OGR Torino
E che hanno a che fare anche con “il sistema”. Perché mica penserete davvero che poesia, danza, arte e letteratura vivano senza supporti esterni? Allo stato assoluto, e nelle idee, sicuramente sì, ma visto che siete in un museo… probabilmente no. E anche se Tino Sehgal non ha molto piacere che fotografiate le sue performance, in questi ultimi tempi ha deciso di lasciarsi andare alle immagini amatoriali, che ognuno scatta e riprende per uso personale, e racconta – ancora a Obrist – come questo “allontamento” dal tecnologico non sia in fondo una condizione “reale” del progetto: «Il mio lavoro condivide la natura di un algoritmo. Per buona parte il mondo virtuale trae informazioni dall’utente, ti chiede “chi sei” e se vai su Youtube ti consiglia cosa guardare. La mia opera alla fine fa la stessa cosa, no? Ti chiede cose “chi sei, cosa pensi” e lo usa come punto di partenza. Anche se alle persone piace avere questa concezione romantica del mio lavoro come qualcosa al di fuori delle dinamiche tecnologiche, credo ci sia una profonda connessione con questo aspetto algoritmico e prosumer del digitale».
E così Sehgal sembra aver fatto tutti i conti con quello che è so contemporary, contemporary, contemporary. E in questa modalità che per certi versi appare un balletto dadaista coordinato, dove le sequenze sono rizomatiche, intercambiabili e imperscrutabili, e dove dall’unione di due pezzi ne nasce un terzo, anche il pubblico sembra aver compreso (per empatia?) il fatto che Tino – attraverso la musica, la danza, il corpo – sembra superare il paradigma della trasformazione delle “materie prime” in beni di consumo. Ecco dunque che, prendendo in prestito un titolo di un altro grande artista, Luciano Fabro, l’arte sembra tornare arte. Almeno per un paio d’ore.
PS: Ad aggiungersi all’arte di Sehgal – e al concetto di collaborazione – ci sono i disegni di Diego Perrone, a bic rossa, realizzati durante le prove e che resteranno come documentazione del progetto. 
Matteo Bergamini

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