24 marzo 2019

La materia dell’arte è champagne!

 
Abbiamo incontrato, a Parigi, Vik Muniz. Il grande artista brasiliano fa squadra con un enologo, per un progetto targato Ruinart

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«Odio avere buone idee, perché in genere le buone idee producono cattiva arte. Sono attratto da quello che non capisco, tra le cose che non conosco e quelle che conosco, preferisco le prime». 
Un ragazzo-contro, Vik Muniz, nonostante i suoi 57 anni. Ragazzo, per modo di dire, ma lo sguardo ha quella limpidezza che in genere alberga nella gioventù. Lucido e penetrante, che ti squadra e ti studia senza metterti in imbarazzo. E capace di sorprendersi. «Sono l’uomo più curioso che conosca al mondo», dice ancora di sé. E quando parla Vik Muniz, nato a Sao Paulo in Brasile, cresciuto artisticamente a New York e ora tornato a vivere nella sua terra natale, ma a Rio de Janeiro, è irrefrenabile. 
Ti sorprende e ti sommerge, un fiume in piena dove fluttuano la sua storia personale, le sue idee molto nette sull’arte e sul suo lavoro. 
L’occasione per incontrarlo è il progetto che Ruinart, una delle più celebri maison di champagne, gli ha commissionato nel 2018 e i cui risultati sono esposti ora a Parigi, al Palais Brongniart, edificio storico che per tanti anni è stato la Borsa della capitale francese, e in parte portati nella vip lounge di miart, sostenuta da Ruinart. Grandi foto, alcune veramente di dimensioni importanti, risultato di un processo elaborato per cui prima Muniz ha fotografato vigne e alberi, foglie e filari delle campagne di Reims, terra benedetta dei vigneti Ruinart, poi ha assemblato rami, foglie e altri elementi naturali presenti nella prima fase e li ha fotografati. Dunque, un lavoro che si basa sui materiali, rendendoli però protagonisti di passaggi concettuali e di una processualità che, al tempo stesso, si allontana dalla natura, ma vi ritorna quanto a morfologia e immagine. «Non sono interessato ai materiali in quanto tali, ma alle attitudini, ai processi innestati dalla loro lavorazione», chiarisce Muniz
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Vik Muniz, Making of
Ma che c’entra uno come lui che non è “un artista da studio” – sottolinea – che a Rio lavora con i rifugiati del Bangladesh e con i ragazzi delle favelas, con questa fantastica maison de champagne che ogni anno sforna le bollicine tra le più sofisticate del pianeta? «Non mi piace lavorare con altri artisti, preferisco lavorare con chi è diverso da me. La differenza è un valore», taglia corto lui. Per questo, dopo essersi confrontato con scienziati e maestri profumieri, stavolta fa squadra con un enologo, Frédéric Panaïotis da qualcuno considerato il migliore enologo del mondo, in un progetto che non a caso si chiama Sharing roots e che vede coinvolto anche uno chef stellato, David Toutain, nel cui ristorante per caso Muniz aveva cenato la sera prima di sapere che sarebbe stato proprio lui il terzo compagno d’avventura. 
Una bella storia, questa di Sharing roots, dove il sostegno generoso di Ruinart ha sicuramente aiutato, ma dove si intrecciano saperi importanti: saper fare dell’ottimo champagne che, dice Panaïotis, «Viene particolarmente bene in questa terra del nord, fredda, a volte gelata, perché le sfide che la vite affronta per sopravvivere ne affinano incredibilmente la qualità», aggiungendo che lui impara “più da un’annata difficile piuttosto che da una facile, perché in questo caso la vite va avanti da sola». E il saper fare dell’ottimo cibo nel più totale, spassionato e appassionato rispetto della natura. Perché David Toutain, che ha omaggiato il progetto Ruinart con piatti ad hoc nelle due serate di presentazione del progetto, non solo lavora con ingredienti più che genuini, ma nei suoi piatti si mischiano radici, sassi, rami in composizioni non solo inusitate, ma che fanno riflettere sull’origine del cibo. Sulla terra, insomma, dove tutto nasce, come dice Muniz: «Dalla matita che uso per disegnare, alla sedia dove siedo, al telescopio che aziono per scrutare l’infinito». 
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Vik Muniz, Making of
E poi? E poi c’è questo artista che sarebbe potuto anche rimanere schiacciato da una storia del genere: tanto lusso, tanti soldi per uno che racconta senza peli sulla lingua di essere nato molto povero ma che ha avuto la fortuna di avere una nonna curiosa di tutto che l’ha circondato di libri e che sostiene che l’artista deve avere un po’ di fame per lavorare sul serio. Lusso e bottiglie millesimate gelosamente custodite in memorabili cantine, profonde fino a 50 metri, scavate nel tufo e nel gesso per otto chilometri, architetture incredibili che disegnano una città sotterranea abitata solo dallo champagne!  
E invece Muniz ha tirato fuori il piglio del vero artista. Il lavoro, senza il quale l’artista non si dà, e il pensiero, senza il quale il lavoro artistico, seppure attraente, non è consapevole. E quindi alla fine risulta quasi inutile. 
Ha lavorato su delle immagini, come è uso spesso fare – ricordiamo tra le sue composizioni più note, quelle fatte con il cioccolato e poi fotografate – cogliendo l’occasione di chiarire come da un’immagine si genera un lavoro d’arte. «In questo caso non si tratta di fare del buon vino o del buon cibo, ma di indurre le persone a pensare riguardo il cibo e il vino. È il processo, di nuovo, a fare la differenza. Un’immagine diviene arte quando inspira a cambiare il modo in cui si guardano le cose». E ancora: «Il ruolo dell’artista è continuare a costruire un ponte o, se vogliamo un compromesso, tra il piano mentale a quello materiale. L’arte avviene nel momento in cui si incrociano la visione e la scoperta del materiale». 
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Vik Muniz x Ruinart masterpiece Flow Polyptych
Bene, poi però ci sono gli alberi, che hanno una storia tutta loro, le piante che, come dice il neurobiologo Stefano Mancuso, sono oggi il prototipo di una democrazia evoluta per via del decentramento del potere che attuano. Una “materia” irriducibile, insomma. E allora il pensiero va all’Arte Povera, a Giuseppe Penone per esempio, che sull’albero ha costruito una intensa poetica. E Muniz subito si accende: «Ho una relazione molto forte con l’Arte Povera e con Germano Celant, penso che tra gli anni Sessanta e Settanta, questi artisti e i minimalisti americani siano stati decisivi per l’affacciarsi di un nuovo modo di fare e di pensare l’arte. Ma nel mio firmamento, accanto a Beuys, che ci ha insegnato a guardare la materia, c’è anche Andy Warhol». Come? Il padre della Pop Art, che c’entra con tutto quello che abbiamo detto finora? «Lui ha lavorato sull’immagine, ci ha fatto capire quanto sia importante. Tutti noi, che siamo artisti, scienziati, chef o enologi, cerchiamo di dare senso alla relazione tra mente e realtà. E questo passa anche attraverso le immagini. Viviamo un momento di crisi di realtà e penso che l’unica possibilità che abbiamo stia nell’avere un approccio sperimentale». Viva Warhol, allora, che sicuramente è stato uno sperimentatore, e Beuys, Muniz e la grande arte che non dorme mai!  
Adriana Polveroni

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