04 luglio 2017

«Caro “Fantocci”, non la dimenticheremo mai»

 
Qualche riga di commiato per il ragioniere più celebre d'Italia. Pensando all'oggi, a noi, e cercando qualche mezza verità nella retorica del personaggio

di

Non c’è voluto molto per convincermi a scrivere su Paolo Villaggio, nonostante la pericolosa associazione con il termine trash che ha sempre accompagnato il suo personaggio principale, il ragionier Ugo Fantozzi. Che poi, “trash” che significa? Un po’ come il queer che stiamo portando avanti, il lemma va ben oltre un’idea di trasversalità. Nel trash, in quella “volgarità”, si è annidato un Paese, le sue contraddizioni, le sue glorie nazionalpopolari e le sue sconfitte morali. Poi, il tempo ha fatto il suo corso. Oggi, quel che è considerata “monnezza” è così maciullata dallo stesso tempo incalzante dei (social) media, che risulta essere una superficie piatta e respingente. Una padella antiaderente, dove tutto viene cotto mantenendone l’aspetto estetico ma uniformandone il retrogusto, così tutto assume lo stesso sapore e non vi è tempo di digerire, nell’allegra abbuffata bulimica. 
Gli anni ’70 e ’80, di quello che oggi definiamo anglofonicamente spazzatura, ne produssero a tonnellate. All’epoca, però, la parola “trash” non si usava: c’era il cinema di cassetta, il pecoreccio, la commedia-sexy, e poi c’erano strane “macchie” sullo schermo, che facevano ridere di pancia l’Italia stolta – perché Fantozzi era e rimane uno sfigato e perché delle sventure altrui si gode – e di amarezza chi invece capiva che la trama non era solamente quella di un povero impiegato piccolo borghese. Era una storia di perdite continue e mezze rivincite, in alcuni, sporadici episodi Fantozzi sembrava riscattarsi dai “padroni” per poi rientrare, più ammaccato di prima, nella sua posizione.
null

Paolo Villaggio e Anna Mazzamauro, alias Fantozzi e la Sig.na Silvani
La storia di Fantozzi, escluse le derive farsesche del rutto libero, del dopobarba nelle mutande, della mafia che recapitava a casa il pesce spada come avvertimento e che la Signora Pina prontamente piazzava nella vasca da bagno, è la narrazione di un Paese e di una condizione, quella di un riscatto sociale perennemente mancato, di una mancata crescita culturale o di interessi, di una quotidianità modesta, reiterata all’inverosimile. Brutta la moglie, ancor di più la figlia; innamorato di una collega d’ufficio meno brutta ma che, nel corso della saga, assumerà sempre più i contorni di una megera devastata dalla sua solitudine e dalla sua immagine. Quello di Fantozzi – e di tutti i compagni del suo Ufficio Sinistri nella megaditta – è lo specchio vecchio di quarant’anni di quel che capita, nelle stesse versioni, oggi. Nella nostra epoca di precariato, di non-contratti, di sottopagati, di sfruttamenti, di stage. Se Fantozzi avesse trent’anni ora non sarebbe così difficile immaginarlo: uno spiantato ma non troppo, forse un tardo “bamboccione” o un impiegato qualsiasi in vacanza con i colleghi. Ma la verità è che la tipologia fantozziana sembra essere stata fatta scomparire non solo dall’avanzamento generale di quella middle-class alla quale poi – all’atto pratico – appartengono in pochissimi, ma anche nella percezione falsata che abbiamo di noi stessi: tutti star e starlette, impegnati e impegnatissimi, sempre sul pezzo e pronti a essere vincenti.
null

Fantozzi il ritorno, Paolo Villaggio e Milena Vukotic
All’epoca di Fantozzi, come ricordò lo stesso Villaggio in una vecchia intervista, c’era invece il posto fisso, la certezza di un lavoro e di uno straccio di stipendio (poi pazienza se i risparmi venivano bruciati in un night rimorchiando tre “brutte di notte”) e, dunque, di un futuro che oggi sembra vacillare, sostituito dall’inganno dell’apparenza e di un’eterna giovinezza che, nella serie di Paolo Villaggio, sfioriva eccome. In Fantozzi, nonostante le esasperazioni, la finzione non c’era. Fantozzi apparteneva a quella classe sociale che oggi appare sempre più defilata; lontana dalle tragedie della povertà ma aderente in tutto e per tutto alla temperie umana. Alla perenne ricerca di un riscatto, costretto ad adattarsi, a giocare qualsiasi maschera pur di sopravvivere a se stesso. Memorabile quella manciata di minuti in cui, travestitosi da giovane, in Fantozzi va in pensione del 1988, cercava di ottenere un ennesimo posto da impiegato superata l’età “concessa” dal concorso: i fatidici 35 anni. Quegli anni che oggi determinano, allo stesso modo, l’essere o meno “giovane” di un artista, che pendono sulla testa come una spada di Damocle da aggirare prima che sia troppo tardi, ritagliandosi un ruolo “sociale”. Fantozzi – distrutto dalla vita del nullafacente, senza interessi se non quello di continuare a essere “schiavo” per sentirsi vivo – finì il concorso nella maniera più tragica e patetica possibile: trovò la soluzione al problema usando carta e penna anziché il moderno computer ma il sudore stinse i finti capelli che via via diventavano un rivolo di inchiostro nero sulla fronte, con i vestiti taglia M in cui si era rinchiuso stracciati dal ventre prominente, nell’atto di annunciare sguaiatamente la vittoria e il più celebre degli insulti da parte di un concorrente beffato: “Merdaccia!”.
null

La Voce della Luna, Federico Fellini
Già, la beffa e l’essere beffato, una storia tutta italiana, e il tentativo di bluffare come unico espediente per fregare una vita che, invece, non concedeva scatti aziendali e che non concedeva parentesi di soddisfazione nemmeno durante l’unica parentesi di militanza politica, quella con l’attivista Folagra in Fantozzi, 1975. Anche in questo caso le intenzioni non andarono a buon fine: il ragioniere, sempre, finiva inghiottito dal sistema, e dalla sua stessa posizione di impiegato. Ah! Di “inferiore”, come ricordava il Duca Conte Barambani, in Fantozzi contro tutti, 1980. 
E visto che in questa montagna di “trash” abbiamo attinto a piene mani, ecco che vogliamo ricordare anche un episodio del film Di che segno sei? (per la regia di Sergio Corbucci, 1975) dove Paolo Villaggio era un marinaio che, per un errore della macchina burocratica ospedaliera, finiva per convincersi della sua trasformazione di sesso, con conseguente riferimento non solo al femminismo, ma anche alle categorie in cui la donna veniva (e viene) ancora iscritta generalizzando: la madre, la Santa, la puttana.  Poi, nel 1980, fu il Ragionier Arturo De Fanti bancario precario che, con Catherine Spaak, aprì le porte di case agli amanti di uno e dell’altro e dei rispettivi amanti degli amanti. Un gioco delle parti, un piccolo teatrino per una commedia simpatica che, però, già all’epoca, la raccontava lunga – seppur in modo leggerissimo – sulle famiglie allargate, sull’idea di “comune” oggi tornata in voga, sulla divisione degli spazi e dei ruoli e, ancora una volta, sul rapporto tra uomo e donna.
Poi c’è stato il giovanissimo Paolo Villaggio di Mario Monicelli, quello di Ermanno Olmi anni ’90, quello di Lina Wertmüller; quello che, dopo oltre 40 anni di carriera era stato osannato anche dalla critica che al suo Ragionier Ugo aveva riservato ben poche lusinghe. Lui, col tempo, aveva risposto – nella realtà – in maniera sempre più provocatoria, sempre più spinosa, sempre meno ortodossa. Quasi come un Megadirettore Naturale o un Ing. Gran Figl. di Put
Anche questo, sicuramente, un atteggiamento un po’ fantozziano.

Matteo Bergamini 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui