06 giugno 2016

Tiziano Scarpa e la solitudine dell’artista

 
Nel suo ultimo romanzo, Il brevetto del geco, l’arte contemporanea occupa uno spazio importante. Dal protagonista, che è un artista, ai curatori e collezionisti

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È un romanzo complesso Il brevetto del geco, ultimo lavoro di Tiziano Scarpa, uno dei nostri scrittori più acuti e capace di muoversi a largo raggio tra territori narrativi e speculativi mai banali, come dimostra anche in questa occasione. Dove si intrecciano diversi piani di lettura e personaggi, alcuni dei quali attori del cerchio magico dell’arte contemporanea, che poi curiosamente convergono in un progetto indipendente per la Biennale di Venezia. Ma che rimangono divisi per credenze e scelte di vita. Un filo importante del racconto, che meriterebbe un approfondimento a sé, è costituito da un’inconsueta riflessione, che corre sottotraccia lungo tutta la storia, sulla vita e sulla morte o, meglio, sulla non vita. 
Protagonista de Il brevetto del geco è comunque un artista, Federico Morpio, e il mondo un po’ sfigato che costituisce lo scenario usuale dove si muovono molti artisti, specie se italiani e specie se hanno superato la quarantina d’anni. Ne parliamo con l’autore, uno dei pochi peraltro sinceramente interessato all’arte contemporanea.
È il tuo romanzo dove c’è più arte contemporanea, cosa abbastanza strana per uno scrittore perché arte e letteratura non sempre dialogano e spesso, quando lo fanno, i risultati non sono eccellenti. Tu invece mostri una profonda conoscenza e un interesse molto vivo. Da dove nasce tutto questo?
«Frequento l’arte da decenni per due motivi, primo: sono veneziano e per noi veneziani l’arte contemporanea è un’esperienza fondativa, molti di noi ci vanno da bambini alla biennale, come altri vanno al luna park. Non è un fatto volontario, cervellotico, ma spontaneo. E poi sono trenta, trentacinque anni che la frequento per passione mia, per amicizie. Ciò nonostante per questo libro mi sono impegnato parecchio, ci ho messo cinque anni a scriverlo, sebbene nel frattempo abbia fatto anche dell’altro. Ho viaggiato, anche per documentarmi per il romanzo, sono andato per esempio al Sacro Monte di Varallo, uno dei luoghi dove prende corpo il rapporto tra Adele e Ottavio, a Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano dove ci sono le opere di Dan Flavin che colpiscono tanto Adele. Sono andato ad Artissima, dove vado sempre volentieri, ma stavolta volevo farci andare Federico Morpio, il protagonista del romanzo, con taccuino e prendendo foto che mi servissero poi per scrivere».
Santa Maria Annunciata, Milano
Con Il brevetto del geco hai scelto di rivolgerti espressamente al pubblico dell’arte?
«Nei miei desideri, i primi interlocutori cui ho pensato sono chi lavora a fianco degli artisti, a fianco e a favore, anche se a volte si collocano in una posizione meno a favore. Ma, insomma, mi riferisco ai curatori, ai promotori. Anzi, il mio piccolo sogno segreto è che ci fosse un contagio tra i curatori, un interesse, intendo. Mi auguro che il mio libro ce la faccia a sbozzare un personaggio, qualcosa che sembri vivo agli occhi di questo mondo. E, se ce la fa, ci riesce con Federico Morpio. Ovviamente ho pensato al pubblico degli artisti, di cui noto qualcosa che definirei “la solitudine dell’artista”».
Che cosa intendi? 
«Ci ho riflettuto molto, specie dopo che ho finito di scrivere questo romanzo. Direi che l’avanguardia, raggruppando gli artisti, moltiplicava le forze dei singoli, spesso scavalcando i mediatori, i critici, i curatori. Ma negli anni Cinquanta e Sessanta era diventata una procedura un po’ meccanica, era un metodo collaudato, che garantiva dei risultati: ti mettevi insieme a un po’ di colleghi, proclamavi che si voltava pagina e iniziava un’epoca nuova dell’arte e dell’umanità, una nuova sensibilità estetica. Irrompevi sulla scena, in un lancio autopromozionale che quasi sempre funzionava. Ma il moltiplicarsi di manifesti e proclami collettivi di poetiche che si succedevano a una velocità sempre maggiore aveva reso quasi caricaturale il dispositivo-avanguardia. Perciò, più che di morte dell’arte, nel postmoderno si può veramente parlare di fine dell’avanguardia: il che è stato già detto tante volte, è ovvio, ma il punto in questo caso è notare che la morte dell’avanguardia ha prodotto artisti soli, senza potere propositivo autonomo, in balia dei critici, dei curatori, dei galleristi. E nota bene che qui adesso non sto parlando di solitudini eroiche, di ricerche rigorose in controtendenza, di malinconie e patetismi della solitudine: quelle ci sono sempre state anche in passato, e non è detto che fossero negative, anzi». 
La copertina del libro
Solitudine, quindi, come perdita di capacità di negoziazione, di forza?
«Parlo proprio di diminuzione di potere! Da soggetti attivi di cultura, gli artisti si sono trasformati in puri oggetti passivi di mercato. In questo sono molto affini agli attori che sperano che gli vada bene un provino. Il successo di un artista dipende dall’essere scelto da chi ha il potere di inserirlo nel suo casting culturale. Si è passati a poco a poco alla fase attuale attraverso varie tappe di congedo e allontanamento dall’avanguardia: per fare solo un paio di esempi, vedi la citazione di avanguardie che ancora riecheggiava, sì, ma in forma di pura crisalide ideata dall’esterno da un curatore, nella Transavanguardia di Bonito Oliva; e poi la nomina di una tendenza generica, puramente “epocale”, da parte di un collezionista, in Sensation di Charles Saatchi. Ora gli artisti sono soli, le loro sorti sono completamente in mano ai mediatori. Se cercano un rapporto diretto con il pubblico, bypassando i vari filtri, sono considerati degli sfigati. E questo è un paradosso pazzesco, perché molti giovani oggi studiano le azioni degli artisti di cento anni fa e spesso sono molto legati intellettualmente a questi illustri predecessori, ma se oggi ne ripropongono alcune modalità, vengono bollati come dei poveracci. Anche i graffitisti non si sottraggono a questa visione, anche perché sono pochi quelli che fanno cose buone sulla strada. Tra questi io ci metto Ericailcane».
Ericailcane
Torniamo a Federico Morpio, l’artista, il protagonista de Il brevetto del geco, anche se poi ci sono altri personaggi, non meno importanti, e altre storie che si snodano parallelamente e che poi si intrecciano. Ma Federico Morpio ruba la scena per il ritratto direi ineccepibile che ne hai fatto di artista confuso, se non proprio fallito. Che, purtroppo, è quello del 70, 80 per cento degli artisti italiani. 
«Federico Morpio è ovviamente il personaggio che ho sentito con più passione, anche perché mi somiglia, per gli stessi dubbi che ho su me stesso. Per gli scrittori e gli artisti c’è un problema molto simile di valorizzazione, di non sapere sempre e fino in fondo quale sarà l’esito del proprio lavoro. Ma nel creare questo personaggio c’è anche il mio rapporto con l’arte contemporanea che, dopo la letteratura, è la mia seconda passione. L’amo fortemente, ma da spettatore. Ho la passione di poter godere di quello che fanno gli altri. E questo mi dà una certa libertà dello sguardo».
Artista solo, secondo l’accezione che hai descritto prima, significa quindi artista fallito?
«Penso di aver descritto le cose come stanno, le difficoltà che, soprattutto oggi, gli artisti incontrano per lavorare. Non volevo fare e non ho fatto una satira dell’arte contemporanea, sarebbe stata la cosa più banale del mondo, specie dopo le Vacanze Intelligenti di Alberto Sordi che si svolge proprio alla Biennale di Venezia. Inoltre, non puoi pensare di trasformare un romanzo in un saggio, sono andato anche un po’ rapido, in un romanzo devi essere narrativo».
Adel Abdessemed e Bruce Nauman, Arsenale, Biennale di Venezia 2015
Nominando la satira, tocchi un punto dolente dell’arte contemporanea. Che spesso viene derisa, aggredita anche con violenza, intendo verbalmente, nei discorsi che si possono fare una sera a cena incontrando persone che non se ne occupano, che ne sanno poco, ma che si sentono in diritto di emettere giudizi, sentenze eccetera. E che mostrano disprezzo verso di essa perché la ritengono un mondo corrotto, dove girano grandi soldi sporchi e che però non hanno niente da dire sul calcio, per esempio. Trovo questo comportamento inaccettabile, anche se penso di intuire da dove nasca. Tu che ne pensi?
«Devo fare un po’ una premessa, per concludere che la satira e l’aggressività che tu noti verso l’arte contemporanea è indice di una sua certa debolezza. Mi spiego. Io frequento questi due grandi campi: la scrittura e l’editoria, da un lato, e l’arte e le mostre dall’altro. Il primo ha un pubblico che è decisivo: i lettori incidono, cambiano le cose, nel secondo campo il pubblico c’è, ma non ha voce in capitolo. E mi spiego meglio: uno scrittore può avere un successo deciso dal pubblico e può avere la gloria che gli dà la critica, oppure può avere tutte e due le cose. Nell’editoria il mercato lo decide il pubblico che incide anche nella critica, nell’arte no: il mercato lo decide il mercato. E questo fa pensare alle caste, alle elite, ma non solo da parte degli artisti esclusi. La satira trova consenso anche nel pubblico generico».
Quindi, paradossalmente, nonostante tutti i soldi che girano e la fascinazione che esercita, il mondo dell’arte contemporanea è più fragile?
«Penso di sì».
Adriana Polveroni

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