30 luglio 2018

ARTS & CRAFTS

 
Artisti e robot al Grand Palais, da Tinguely a Orlan
di Giancarlo Ferulano

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Dopo la “Biennale internazionale delle arti digitali dell’Ile-de-France” svoltasi al 104 nello scorso marzo, il Grand Palais riaffronta il tema con l’esposizione “Artisti e robot”, una mostra che si presenta come proposta di riflessione su un tema cruciale in questa fase dell’arte contemporanea: imparare a distinguere l’invenzione artistica, nella sua ricchezza creativa, evocativa e provocatoria, dalla mera capacità di produrre una “macchina” originale e/o sfruttarne e piegarne le potenzialità tecnologiche per una formalizzazione non scientifica. 
Laurence Bertrand Dorléac e Jérôme Neutres che hanno curato questa mostra/esplorazione sull’uomo artificiale articolata in tre sezioni, l’arte robotica, l’arte algoritmica e l’arte generativa propongono una trentina di opere diversissime: macchine che disegnano, incidono superfici e permeano lo spazio, software generativi e intelligenze artificiali, robot e videoinstallazioni. 
La prima sezione, macchine per creare, propone robot veri e propri, che fanno di tutto. La seconda sezione, l’opera programmata, mostra l’ampiezza e la varietà generativa dei software e le possibilità di interagire con il visitatore. Nella terza l’intelligenza artificiale le opere si fondono con le macchine che le producono e sollevano interrogativi sulla possibilità che le macchine siano capaci anche d’inventare e prendere decisioni.
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Arcangelo Sassolino, Artistes et robots
La fantasia sulla possibilità di duplicazione dell’uomo parte dall’antico mito ebraico del golem, il servo forte e ubbidiente e passa per l’invenzione di Frankenstein il mostro prometeico; negli anni ’20 del Novecento appaiono i replicanti del ceco Karel Čapek, il promotore della parola robot nella sua pièce I robot universali di Rossum mentre l’immaginario artistico si produceva nella testa meccanica di Raul Hausman (The spirit of our time 1920) e nelle dirompenti riprese di Metropolis. Dagli anni ’50 parte una ricerca artistica più specificamente incentrata sulla sperimentazione e la mostra espone qualche opera dei pionieri, l’ungherese Nicolas Schöffer, lo svizzero Jean Tinguely e il sud coreano Nam June Paik; dalla tipologia analogica di questi primi esperimenti nascono i computer artist produttori di “arte algoritmica”, a partire dagli anni ottanta le esperienze di installazioni interattive e di software art e infine alla fine dei novanta le indagini contemporanee sull’intelligenza artificiale.
In questo panorama sono pochi gli artisti competenti di informatica capaci di inventare il sistema tecnologico idoneo e devono quindi ricorrere agli specialisti. In qualche caso questo distacco sembra trasparire nella dimensione ironica del prodotto ad esempio in Injoction I, di Nicolas Darrot del 2008 che sceglie un topo elettromeccanico come istruttore di una laringe artificiale. 
Nella varietà di specificità informatiche non è facile orientarsi; forse può essere utile una distinzione fra oggetti definiti che talora possono produrre altre prestazioni ma che non subiscono interferenze dal fruitore ed opere gioco quelle con le quali l’utente può entrare in relazione.
Fra gli oggetti definiti i robot, “doppi” dell’artista: quello della francese Orlan, creato apposta per l’esposizione, un suo busto innestato su uno scheletro meccanico e quello del giapponese Takashi Murakami del 2016 una sua perfetta riproduzione a grandezza più o meno naturale, dal viso sorprendentemente squarciato; entrambi offrono una performance in loop.
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Artistes et robots, vista della mostra
Opere aperte a un processo indefinito sono i sistemi che operano in autonomia per produrre altro: Paul le robot alias Human Study del francese Patrick Tresset che dispone dinanzi ad alcune ricostruzioni di scene – che richiamano le vanités del XVII secolo – un sistema di telecamera con braccio meccanico che disegna a china su carta gli uccellini inseriti nella scena (disegni che poi si potranno comprare al bookshop); il portoghese, Leonel Mura nell’installazione Robot Art del 2017 utilizza delle automobiline/pennello, azionate da un algoritmo ispirato al movimento delle formiche per lasciare segni su grandi fogli a pavimento: fra questi alcuni vengono poi esposti quale Rap e altri. Simile il principio adottato in Senseless drawing bot del 2011 dai giapponesi So Hanno e Takahiro Yamaguchi che fanno scorrere un macchinario anch’esso mosso da un algoritmo che spruzza su di una parete, con effetto street art, segni colorati. Si osservano queste azioni mentre con grande fragore una benna imponente, dell’italiano Arcangelo Sassolino, si muove casualmente comandata da una pompa idraulica e, aprendo e richiudendo i suoi denti d’acciaio, scolpisce la lastra di cemento su cui scorre. La ricchezza di suggestioni di quest’opera Untitled del 2006 è ancora elevatissima.
In campo musicale l’italiano Jacopo Baboni-Schilingi propone Argo o La musica respira del 2018: un dispositivo induce sottili variazioni al tracciato musicale in funzione della qualità del respiro dell’autore cui è collegato e immediata sorge l’associazione con il video visto nelle prime sale di una scena, tratta dal film del 1964 What a way to go!, con un irresistibile Paul Newman nelle vesti di un artista che seduce Shirley Mc Laine mostrandole come una macchina di sua invenzione dipinga azionata da impulsi musicali. 
Nelle opere gioco l’utente può interferire; l’opera si automodifica con un sistema che lavora in autonomia ma anche su uno stimolo casuale (come già nei lavori pionieri di Tinguely e Paik); i fiori Extra-natural del francese Miguel Chevalier, del 2018, grandi fiori digitali che si muovono e si modificano senza sosta influenzati dalla presenza e dai movimenti dei visitatori o Les Pissenlits (1990-2018) dei francesi Edmond Couchot e Michel Bret dei fiori digitali -in realtà i “soffioni”- ondeggiano su un grande schermo e disperdono i leggerissimi petali, al soffio del visitatore su una sorta di microfono, per poi ricomparire con composizioni diverse.
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Takashi Murakami, Artistes et robots
Nelle rappresentazioni formali di processi combinatori infiniti, Data.tron del giapponese Ryoji Ikeda del 2011, che mostra su schermo lo scorrere di infiniti processi matematici e Strutture dei quadrilateri dell’ungherese Vera Molnar del 1966, un lunghissimo rotolo di carta sul quale si sviluppano progressive variazioni grafiche prodotte da un elaboratore, non interagiscono con l’esterno; invece nell’opera Reflexão della brasiliana Raquel Kogan del 2005, il visitatore è totalmente immerso. Un algoritmo genera numeri che scorrono all’infinito proiettati in uno spazio buio e aderiscono sul corpo del visitatore. 
In alcune opere il sistema interagisce con il reale e lo trasfigura con formalizzazioni tecnologiche: Portrait on the fly di Christa Sommerer e Laurent Mignonneau del 2015, e Learning to dream del turco Memo Akten del 2017 nei quali uno schermo/specchio cattura l’immagine antistante e un programma complesso la rielabora con movimento incessante, nel primo, definendo i lineamenti con una costellazione di insetti digitali e nel secondo confrontandolo con un archivio di opere d’arte.
Alla fine della visita restano alcuni nodi irrisolti. La difficoltà sostanziale, di individuare con ragionevoli motivazioni le invenzioni creative rispetto alla mera capacità di utilizzare al meglio lo strumento tecnologico, si incrementa nel contesto di un panorama così ampio che offre per di più esperienze molto spesso emozionanti e inquietanti, per originalità e capacità di stupire.
Né è facile dare risposta ad altri interrogativi: quale sia il valore e il senso in termini artistici di questo intreccio fra scienza e creatività, quale sia il grado di autodeterminazione della macchina e quindi le sue possibilità di equipararsi al prodotto artistico e, infine, se questo sia un capitolo nuovo e realmente diverso della storia dell’arte oppure soprattutto un modo di produrre opere con strumenti e tecnologie nuove.
E ancor più confonde, anche se diverte, l’iniziativa del museo che con il biglietto offre una riduzione per visitare l’Esposizione digitale immersiva Gustav Klimt – una realizzazione degli italiani Gianfranco Iannuzzi, Renato Gatto, Massimiliano Siccardi, con la collaborazione musicale di Luca Longobardi, ora in corso anche a Roma nella Sala delle Donne a San Giovanni dell’Addolorata – in un nuovo spazio espositivo che si è aperto nell’XI arr. l’Atelier des lumières, dove con dispositivi sofisticati vengono proiettate su ogni centimetro di superficie dei grandi spazi dell’ex officina immagini del mondo artistico di Klimt e della secessione viennese. Veramente spettacolare e coinvolgente ma è come se dopo una conferenza mondiale sulla fame del mondo ti mandassero nella Grande épicerie del Bon marché o a inaugurare un nuovo spazio Eataly.
Giancarlo Ferulano

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