02 giugno 2017

Collezione in dialogo, alla Galleria Nazionale

 
“La Caixa” di Barcellona porta nella Capitale grandi nomi del contemporaneo. In cerca di una nuova comunicazione tra le opere, partendo dal concetto di frammento

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“Conversation Piece” è la mostra collettiva che fino al prossimo 17 settembre sarà visibile alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. In scena un corpus di lavori provenienti dalla Caixa, la collezione d’arte contemporanea della Cassa di Risparmio di Barcellona, che negli ultimi 30 anni si è distinta per l’acquisizione di opere d’arte di artisti più o meno noti, molto eterogenee tra loro in termini stilistici.
Il titolo della mostra può essere tradotto in italiano come “frammento” o “spunto” di conversazione. In questo caso specifico l’obiettivo della mostra è sicuramente quello di offrire un imput al dialogo, mettendo al proprio centro la possibilità di scambio e di confronto-scontro che si viene a creare tra le opere selezionate, molto diverse tra loro e per questo in grado di generare un’opinione da dibattere.
Donald Judd, Richard Serra, Antoni Tapiés, Jana Sterbak, Doris Salcedo sono alcuni degli artisti presenti, e la scultura di Juan Munoz che dà il titolo alla mostra ci mostra lo scambio dialettico tra 3 figure semiumane che interagiscono tra loro con un gioco di sguardi e gesti che sottintendono una comunicazione, ma anche una necessità di attenzione a quanto si intende esprimere. Poste all’ingresso della sala, accolgono il visitatore intrappolandolo nella loro rete senza fili, ponendosi quasi come un ostacolo al passaggio, una sosta obbligata, vociante di rumore bianco, vestibolo del grande silenzio minimalista che si effonde dalle altre opere in mostra. Il contrasto con Judd è difatti interessante e chiaramente visibile.
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I suoi volumi regolari e stabili, nei cubi all’apparenza identici, presentano al loro interno divisioni e partizioni che danno un ritmo ad uno schema illusoriamente ripetitivo; come a dire, le infinite possibilità di declinare un tema, sempre quello, mai lo stesso. L’opera di Donald Judd, che sembra tacere in contrapposizione al gioco verbale e gestuale dell’opera di Munoz o all’ironica imitazione di una macchina da scrivere eseguita dall’attore Michael Winslow in The history of the Typewriter, è in realtà solo un’ulteriore, possibile, modalità di espressione, che invece di essere messa in secondo piano dalla apparente maggiore chiarezza delle altre ne esce rinforzata, come una lingua meno conosciuta ma non per questo meno affascinante.
Sull’onda della serialità geometrica corre il pezzo qui esposto di Rachel Whiteread, scultrice che fa suo il concetto di un’edilizia della memoria, cucendo con atteggiamento freddo ed oggettivo le suture delle impressioni del ricordo, che per sua natura labile, viene qui reso tangibile e tridimensionale; l’opera in mostra è una restituzione plastica di un concetto spaziale di corridoio, che ha in se la memoria del calpestio vissuto congelato nella quadratura della forma che dal concetto diventa oggetto. O viceversa, come per l’opera di Doris Salcedo, che si interroga sull’idea della nostalgia attraverso la presentazione di oggetti d’arredo intrisi di mestizia; l’analisi lucida e anaffettiva della Whiteread cammina efficacemente a braccetto con la melanconia viscerale del legno saturo di umori emotivi dell’artista colombiana.
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Dal minimalismo geometrico a quello in qualche modo segnico, giocato sull’assenza dello stesso o sulla sua ripetizione, in un accordo di parti o interezze di colore che comunicano in modo diverso impressioni egualmente profonde. Le strisce orizzontali color pastello di Agnes Martin sembrano dei sereni percorsi di azzeramento visivo, inteso come ricerca progressiva di sottrazione dell’inutile che si pone fra l’occhio del’osservatore e il concetto da comprendere. Le ondulazioni ritmiche di Pijuan comunicano qualcosa di più accelerato, o forse di immobile, questo a seconda dei punti di vista. A ben pensarci un mare calmo è composto da centinaia di onde ferme in attesa di scatenarsi. L’informale di Tapiès parla di un vuoto consapevole, un “Grand blanc” che include in se la poetica dell’interezza, anche nella sua apparente mancanza: è forse qui che ci si aspetta di più l’arrivo di un moto improvviso, un fuoriuscire del Tutto dal Niente.
Su di loro Richard Serra, saturo di informazioni, denso di vissuto al punto da non poterlo mostrare, inglobato nel buco nero che non deve dare spiegazioni, al limite ingerirle o digerirle. L’assenza di spazio o la sua completa distesa infinita, l’assenza di argomenti o la possibilità interminabile di prelevarli da un mare di inesauribile abbondanza.
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Di rimando ai sacchi-fantocci di Munoz appare la ballerina di Juliao Sarmento, ologramma sprovvisto di tutù della progenitrice Degassiana; appare qui più matura, più donna, dalle forme più complete, ma perde il potere della comunicazione che aveva la sua antenata, acerba e orgogliosa del suo status di danzatrice per diventare guscio vuoto di un femminile immobilizzato nel suo stereotipo di bellezza. Bellezza emanata anche dall’elegante abito bianco in sospensione di Jana Sterback, che spiega la sua presenza attraverso un video, dove, indossato da una giovane modella, si rinchiude in un basso recinto, una gabbia come quella che tende la sua sottogonna, attaccato da una serie di nemici. Defence è il titolo dell’opera, l’armatura spesso necessaria alla nostra sopravvivenza.
La mostra convince nella sua variabilità; da una conversazione si esce arricchiti quando si apprende un nuovo modo di vedere le cose. Una banale frase fatta? In un contemporaneo dove tutti si parlano addosso sperando di risaltare anche solo per un attimo con il proprio punto di vista, sono i silenzi o le differenti forme pensiero che lasciano il tempo per esaminare o la possibilità di guadagnare nuove prospettive.
Valentina Martinoli

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